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Non si può certo dire che il Gran Premio di Miami sia arrivato in punta di piedi nel calendario della Formula 1. Per spingere l’acceleratore dell’interesse verso una gara tanto voluta da Liberty Media quanto non apprezzata dai residenti, gli organizzatori hanno agito su più fronti. Da un lato hanno portato la F1 anche a South Beach, dove avrebbero voluto disputare inizialmente la gara, con una serie di eventi collaterali e pubblicità per convergere l’attenzione di chi apprezza di più i party dell’azione in pista.
Dall’altro, hanno portato South Beach nel parcheggio dell’Hard Rock Stadium dei Miami Dolphins, dove si snoda una pista che, fortunatamente, non ha le stesse mancanze dell’orrendo tracciato ricavato nei dintorni del Caeasars Palace su cui si corse a Las Vegas a inizio anni Ottanta. Con un guizzo che poteva solo nascere dalla mente di un americano, è stata allestita una finta baia, con yacht veri, ma senza acqua, sostituita da un pannello dipinto. Una sorta di Montecarlo in salsa a stelle e strisce che rappresenta solo la punta dell’iceberg di un evento chiassoso, che punta a essere il Super Bowl della F1.
Solo a Miami avremmo potuto vedere Daniel Ricciardo e Lando Norris scorrazzare fieri per il paddock con dei crop top che si possono indossare solo con una grande dose di ironia, e pure di coraggio. In nessun altro posto avrebbero potuto essere organizzati un evento con DJ set di presentazione dei piloti e, peggio ancora, una parata dei team principal, fermata solo da un moto di orgoglio dei boss, probabilmente imbarazzati all’idea di esporsi in questo modo. Il weekend di Miami sarà una gigantesca scorpacciata di kitsch, dalle magliette pastello ai caschi celebrativi, passando per un podio che riproduce le onde del mare.
Il passaggio da Imola a Miami è brusco. Sulle rive del Santerno si respirava l’essenza della Formula 1 di altri tempi, con un contorno più semplice e genuino. La F1 vissuta con l’ombrello, in mezzo al fango – non senza qualche intoppo organizzativo, va detto - è lontana anni luce dall’atmosfera esagerata della Florida, e per questo più autentica, almeno per chi ha imparato ad apprezzare e a vivere la F1 per la sua anima sportiva e tecnologica, e non per la narrazione in stile Netflix che sta attraendo nuovi spettatori grazie a un prodotto televisivamente sofisticato, ma meno veritiero.
Ma il paragone tra Imola e Miami offre un ulteriore spunto di riflessione. Nella F1 di oggi, sempre più cosmopolita e popolare, a tutto vantaggio dell’aspetto finanziario del business, le gare come quella di Miami servono a garantire la sopravvivenza dei GP come Imola. La storia della F1 può restare in calendario solo a patto che ci siano altri appuntamenti meno tradizionali, ma in grado di generare introiti, attirando anche chi vuole godersi un pacchetto fatto di spettacolo in pista, ma soprattutto fuori.
La F1 fatta solo di circuiti come Imola e Monza non esiste già più. È il retaggio di un passato che in molti, inevitabilmente, rimpiangono. Ma il Circus, per sopravvivere, deve evolversi, attirando nuove fette di pubblico e garantendo una solidità finanziaria che passa per eventi chiassosi come quello di Miami, così come dalle piste capaci di erogare cifre da record per assicurarsi un posto in calendario. Tutto quello che non sono tracciati come Imola, Monza, Spa e Suzuka, che si meritano ampiamente la permanenza in F1.
E allora ben venga un GP come quello di Miami, per quanto certe soluzioni ad alto coefficiente di kitsch non siano apprezzate neanche da chi scrive. A patto che si corra su una pista degna di questo nome – e il tracciato in Florida, fortunatamente, non sembra paragonabile a orrori visti nel passato – conviene tapparsi il naso. Non solo. Anche se i nuovi appassionati della F1 sono stati affascinati da rivalità gonfiate e narrazioni artificiose, bisogna dare loro il beneficio del dubbio. Perché la passione deve pur cominciare da qualche parte. E non è detto che con il tempo anche loro non possano apprezzare quell’essenza che circuiti come Imola racchiudono perfettamente.