F1, GP Silverstone 2019: gli appunti di viaggio del nostro inviato

F1, GP Silverstone 2019: gli appunti di viaggio del nostro inviato
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Gli appunti di viaggio del nostro inviato F1, Paolo Ciccarone
12 luglio 2019

Silverstone, bel suol d'amore potrebbero cantare i nostalgici di una F.1 del tempo che fu. Degli inizi della storia del mondiale, dei debutti di Villeneuve o del motore Turbo della Renault, della prima vittoria di Regazzoni con la Williams o dell'Alfa Romeo con la 159. Silverstone, la patria del motorsport inglese, un baluardo della storia che si rinnova anno per anno. Eppure, eppure... Va beh, per cominciare l'avventura verso Albione, si comincia mesi prima col trovare l'aereo giusto. Un po' per le tariffe, un po' per gli aeroporti di arrivo. Se voli Ryanair finisci a Stanstead che è dall'altro capo di Londra, se arrivi a Heatrow devi sciropparti tutta la M25, la famigerata Orbital e poi prendere la M40 Nord verso Birmingham. Se finisci a Luton sei fortunato perché più vicino a Milton Keynes e alla M1 che poi ti porta a Silverstone. Se finisci a Gatwick, ti spari un altro bel pezzo di Orbital e nel traffico una tragedia. Se invece vai a London City, oltre al panorama ti becchi il traffico cittadino e ore per uscire da Londra. Insomma, il primo scoglio è questo.

Il secondo adeguarsi alla guida a destra delle vetture, infatti all'inizio ti incasini con tergicristallo quando credi di mettere la freccia e viceversa, oppure ti attacchi alla portiera invece che cambiare marcia con la mano sinistra. Non parliamo del primo impatto su strada, hai sempre l'impressione che ci sia una banda di matti contromano... Comunque sciocchezze, pinzellacchere direbbe qualcuno più quotato e bravo. Dopo un po' ci si prende la mano, ci si gode gli speed limit variabili e ti adegui. E parti direzione nord. Siamo a luglio ma il venticello freddo che porta le temperature a 22 gradi ti fa capire che qui l'estate non sanno cosa sia. Secondo loro è caldissimo, secondo i nostri standard ci vorrebbe il maglioncino. Ma niente paura, loro vestono secondo il calendario. Per cui se è luglio loro maniche corte e pantaloncini. Anche se piove e ci sono 12 gradi. Però è luglio e va bene così. Dopo una sosta alla stazione di servizio poco prima di Oxford, con caffè per tirarsi su e veloce mangiucchiata di roba non meglio identificata, si arriva nel tempio del motorsport. Fino a qualche anno fa era una tragedia arrivarci, nel senso che l'attuale A43 a doppia corsia era una stradina di campagna con code chilometriche. Infatti una delle specialità di Silverstone è proprio la coda.

Gli spettatori che vanno al Gran Premio si mettono in fila per ore, in attesa che l’auto davanti si sposti o che il poliziotto dia le indicazioni necessarie. Nell’edizione del GP del 2000 la coda assunse proporzioni bibliche. Causa il maltempo e i parcheggi coperti solo dal prato erboso, ci fu un ingorgo incredibile. Il warm up del mattino fu ritardato perché l’elicottero di soccorso non poteva alzarsi in volo. Le strade di ingresso furono intasate al punto che piloti, team manager e personale della F.1 rimase bloccato e qualcuno si fece anche qualche km a piedi. Sui monitor della sala stampa comparve anche la scritta “Ron Dennis è infuriato perché bloccato a 7 miglia dal circuito. Prendetevela comoda…”. Almeno il senso dell’umorismo non venne meno, anche se quell’edizione provocò la più grande discussione politica attorno a Silverstone e al GP di Gran Bretagna.

Per un appassionato di motori la pista inglese rappresenta uno dei santuari. C’erano curve mitiche, come la Copse, dove si andava a vedere o meglio a sentire chi aveva il coraggio di tenere giù il piede davvero. Ma c’erano anche gli spazi per gli appassionati, rappresentati dalle varie categorie da corsa inglesi e dalla presenza di vetture storiche per tutti i gusti. Un giro nel paddock della F.3 significava prendere contatto coi campioni del domani. Un giro fra le storiche e si poteva toccare con mano pezzi a metà fra l’antiquariato e la storia delle competizioni mondiali. Non solo, ma nel paddock di Silverstone ci sono alcune librerie che offrono tutto lo scibile sulle corse, profili di piloti, macchine, squadre, manager: c’è di tutto e c’è da perdersi. Una corsa di F.1 a Silverstone, però, meritava di essere seguita soprattutto per il dopo gara. Fino a quando il paddock non era asfaltato ma coperto d’erba, c’era la simpatica tradizione del barbecue all’aperto. Tutte le squadre inglesi organizzavano, con i dipendenti e le famiglie, una allegra grigliata con tanta birra, indipendentemente dal risultato finale. Potevano partecipare anche i giornalisti stranieri e i fotografi in una grande festa dopo gara. La tradizione del barbecue è finita a metà degli anni 90 solo perché il retro paddock è stato asfaltato e le squadre sono state spostate all’esterno e in mezzo al pubblico, si sa, certe cose è meglio non farle altrimenti una birra tira l’altra e a sera c’è una montagna di bottiglie, come dimostrano i netturbini che senza sosta puliscono le tribune e i posti accoglienza.

Damon Hill nel 1997
Damon Hill nel 1997
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La tradizione del barbecue è stata però sostituita con quella del concerto a fine gara. Su un camion della Jordan venivano caricati gli strumenti e gli stessi protagonisti del circo iridato si esibivano. Mitica una edizione del concerto con Johnny Herbert, vincitore della corsa del 1995, sul palco a suonare e cantare, con Eddie Jordan alla batteria, Damon Hill, pilota della Williams, alla chitarra e Chris Rea voce e chitarra solista! Un’altra volta arrivarono anche i Coors, amici di Jordan, con Jo Sawyer e Phil Collins, ma si esibirono anche ex Pink Floyd, come Nick Mason che si era pure esibito in una corsa di contorno con le auto storiche. Da qualche anno a questa parte Silverstone è diventata una gara come le altre, anzi più scomoda visto che la ricettività alberghiera della zona è molto scarsa e di solito si finisce a Northampton, a Milton Keynes o a Banbury, a circa 45 chilometri da Silverstone. Una volta riuscimmo a trovare un posto dove dormire in una scuola a pochi chilometri da Banbury.

Tutta la troupe della RAI, con i telecronisti Gianfranco Mazzoni, Ettore Giovanelli, Stella Bruno, Federica Balestrieri e i cameraman, una decina di persone in tutto, furono alloggiati in questo college chiuso per le vacanze pasquali. Lo spirito fu quello della scolaresca, ma il più spiritoso fu Ivan Capelli. La sera, durante la doccia, riusciva a fare scherzi incredibili. Gettava i vestiti puliti all’interno della doccia, col risultato che si bagnavano, chiudeva a chiave i bagni, faceva sparire la carta igienica. Insomma, si era tornati a scuola anche come comportamento. Purtroppo anche da quella scuola per andare in autodromo, si dovevano affrontare le stradine che portano a Silverstone. Siccome la strada principale è una sola, in Inghilterra si gioca alla guerra. Ovvero, come arrivare al circuito seguendo le stradine di campagna ed evitare le code. Ormai ci sono degli esperti di percorsi di guerra, come vengono chiamati, anni di esperienza alla ricerca dell’incrocio perfetto, con tanto di cartine militari della zona.

Silverstone, infatti, era un aeroporto militare molto usato nella seconda guerra mondiale. Mettere le mani su una di queste cartine, significa evitarsi ore di fila all’ingresso. Ci sono passaggi brevettati, villaggi attraversati che sono composti solo da una chiesa, tre case, una “farm” e la scuola, su viottoli a volte sterrati dove si incrociano due auto e uno dei due deve andare fuori strada per far passare l’altro. Poi, una volta in sala stampa, ci si guarda e si sforna il risultato finale: “Da Banbury a Silverstone in ventisette minuti”. Alla risposta, di solito una “Ohhhhh!” di ammirazione degli inglesi, loro ti dicono che ci hanno impiegato appena un’ora e trentasei minuti da Northampton o addirittura da Towcester, borgo ad appena 8 km dal circuito, ma dal quale hanno seguito la strada principale…

Se arrivare a Silverstone è un problema, uscirne è peggio. Data la conformazione del tracciato e le strade di accesso, le squadre italiane che devono andare in aeroporto a Luton, dove atterrano i charter, organizzano un convoglio scortati dalla polizia. E’ questa la vera corsa contro il tempo in cui meccanici e ingegneri danno il meglio di sé. Nel primo tratto c’è la polizia a fare da scorta e allora si rispettano limiti e segnaletica. Ma appena le forze dell’ordine danno via libera sulla statale che porta a Londra e che incrocia l’aeroporto di Luton, allora si scatenano le “bestie”. Furgoni che arrivano in formazione agli incroci, gare a chi “stacca” dopo e due alla volta, affiancati, sui round about, le rotatorie poste ad ogni incrocio. E’ uno spettacolo che va visto almeno una volta nella vita, farne parte ti fa sentire come i guerrieri che partivano per le campagne di conquista. Quando arrivi a destinazione, ti senti un sopravvissuto.

Altro problema, la cena. Attorno al circuito e per km, non ci sono possibilità. Se si arriva a una certa ora, prima delle 21, si può mangiare al self service di una stazione di servizio dell’autostrada altrimenti si deve cercare un self service negli hotel, ma siccome si arriva di solito verso le 22, la cucina è normalmente già chiusa. Se invece si trova aperto, allora con la modica cifra di 30 sterline, si può mangiucchiare qualcosa. Al cambio sono circa 45 Euro. Come dire che il panino e la bibita non sono proprio a buon mercato. Ci fu anche una edizione, quella del 1994, piuttosto movimentata. Chi scrive si trovò al centro di un episodio increscioso durante la corsa. Nel momento in cui Gerhard Berger si fermò ai box con la sua Ferrari, scese stizzito dalla macchina e vedendo che all’esterno del box c’erano molti giornalisti in attesa, fra cui il vostro cronista, li chiamò. La Ferrari per l’occasione aveva assoldato due buttafuori, personale inglese di stanza alla sede locale diretta da John Barnard. Quando entrammo nei box i due buttafuori cercarono di fermare i giornalisti. Solo che Berger, fermo in pista, non capì il perché della fermata improvvisa e richiamò ancora i cronisti perché voleva parlare subito e andarsene via.

Al mio fianco destro c’era Daniele Dallera, inviato del Giorno (adesso capo redazione sport del Corriere della Sera), altezza 2 metri e 8 centimetri, a quello sinistro Umberto Zapelloni, (ex vicedirettore Gazzetta dello Sport) un metro e novanta. Il buttafuori, di taglia piccola ma decisamente incazzoso, per fermare la stampa invadente scelse il più magro del gruppo, il sottoscritto, e rifilò due colpi secchi all’altezza del fegato. Il colpo fu tale che mi accasciai e cominciai a piangere appoggiato al camion officina della Ferrari. Non feci l’intervista e me ne tornai in sala stampa, ma il dolore era tale che dovetti ricorrere alle cure del medico, il dottor Riccardo Ceccarelli che all’epoca era alla Minardi. Il medico voleva che andassi in ospedale per controlli, dato che sul fianco si vedevano nettamente i segni dei pugni del buttafuori. Rifiutai e rimasi a lavorare.

Dapprima la versione ufficiale della Ferrari fu che avevo aggredito il loro uomo al cancello, ma siccome ero magro e poco aggressivo, la tesi di Maranello fu subito sbugiardata dai colleghi della stampa. Poi Giancarlo Baccini, responsabile della comunicazione della Ferrari, venne in sala stampa a porgere le scuse della squadra. Accettai le scuse, ma il giorno dopo, sui giornali, fu tutto un fiorire di titoli sull’aggressione, tanto che la rassegna stampa fu nettamente a mio favore: Ciccarone nove titoli principali, Ferrari due, al vincitore del Gran Premio, Damon Hill, un titolino di spalla. Furono giorni di tensione e di incontri fra il mio editore, Alfredo Cazzola, il direttore Alberto Sabbatini, il presidente della Ferrari, Luca di Montezemolo, e Jean Todt.

Alla fine ci pensò Montezemolo con un gesto simpatico e divertente. Fece arrivare un invito al pranzo di Natale ma non vedendomi arrivare in tempo si preoccupò: “Non vorrei che lo avessero fermato all’ingresso e malmenato ancora”, entrai in sala proprio mentre finiva di pronunciare questa frase e risposi che avevo fatto tardi in palestra. Montezemolo, ridendo, mi consegnò un bel regalo: un paio di guantoni da box, rigorosamente rossi e gialli col marchio Ferrari: “Così la prossima volta che viene a trovarci si potrà difendere!” disse il presidente della rossa. La gara seguente la Ferrari vinse il Gran Premio con Berger. Dissi subito a Montezemolo: “Se per tornare a vincere devo farmi menare, presidente faccia di me quello che vuole”. Per fortuna si è tornati al successo senza altri colpi ferire…Anche se, visti gli ultimi avvenimenti, ho quasi l'impressione che ci si debba sacrificare ancora...

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