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In Formula 1, avere una seconda chance è un lusso di cui ben pochi piloti possono godere. Per molti è già impossibile arrivarci, nella massima categoria dello sport. Figuriamoci fare ritorno dopo aver perso il sedile. In questo limbo della pausa invernale, però, c'è tempo per riflettere su chi avrebbe meritato una seconda opportunità tra i piloti che hanno avuto brevi esperienze in F1 in tempi relativamente recenti. Ecco le nostre scelte.
Vedendolo muoversi per il paddock come presenza silenziosa durante la stagione 2023 come pilota di riserva dell'Aston Martin, non abbiamo potuto fare a meno di chiederci cosa avrebbe potuto ottenere Stoffel Vandoorne se avesse corso in un team diverso dalla McLaren degli orrori della seconda metà dello scorso decennio. Era il GP del Bahrain 2016 quando Vandoorne, all'epoca terzo pilota della scuderia di Woking, si ritrovò a esordire al posto di Fernando Alonso, finito in panchina in via precauzionale dopo lo spaventoso botto rimediato in Australia. Vandoorne in quella gara si comportò molto bene, cogliendo un decimo posto. Ma quando divenne titolare, l'anno successivo, il suo potenziale non fu mai espresso.
Quella McLaren non era la McLaren di oggi. Invischiata in una collaborazione da incubo con Honda, la scuderia di Woking collezionava penalità fantozziane per i suoi piloti, costretti a scattare dalle retrovie per colpa dei motori che si ammutolivano con una frequenza spaventosa. Honda avrebbe vinto, dopo. Ma in quel momento i fasti con la Red Bull erano molto lontani. A rendere ancora più complessa una situazione non semplice persò anche un altro fattore. Fernando Alonso, il suo compagno di squadra. Termine di paragone già sfidante, lo era ancora di più con monoposto disgraziate. Stoffel finì per essere schiacciato, e fu lasciato a piedi a fine 2018.
Che Vandoorne non sia un pilota scarso lo si evince dal CV successivo alla sua partecipazione in F1, che vede un titolo mondiale conquistato con la Mercedes in Formula E. Affabile e molto intelligente - oltre che davvero disponibile con i giornalisti - è ben voluto e apprezzato da chi ha lavorato con lui. Pur mantenendo un piede in F1 grazie alle collaborazioni con Mercedes e Aston Martin, Stoffel si gioca questa parte della maturità della carriera con il doppio impegno in FE e nel WEC il prossimo anno. Correrà ancora con DS nella categoria 100% elettrica, mentre sarà portacolori di Peugeot nel mondiale Endurance. Stoffel, come gli altri piloti di cui vi parleremo, dimostra che c'è vita oltre alla F1. Ma meritava una seconda chance.
Arrivato in Formula 1 a 22 anni con la modesta Manor nel 2016, Pascal Wehrlein sembrava avere le carte in tavola per poter quantomeno vivere un'esperienza a lungo termine nel Circus. E invece, dopo una stagione in Sauber al fianco di Marcus Ericsson nel 2017, per lui si chiusero le porte della F1. Con Charles Leclerc in arrivo dalla Formula 2, restava un solo sedile per il 2018. E se lo prese lo svedese. Non aiutò l'infortunio alla schiena che Pascal subì alla Race of Champions a inizio 2017 e che gli fece saltare le prime due gare della stagione, oltre a condizionarne almeno l'abbrivio. Ma il vero problema di Wehrlein era un altro: il suo carattere.
Sin dai tempi in cui, da giovane del vivaio della Mercedes, aveva effettuato un test con la Force India, la sua disposizione era stata oggetto di chiacchiere che nel tempo avevano cominciato a sedimentare. Il paddock è un ambiente piccolo, in cui tutti si conoscono. E quando ci si crea una certa reputazione, non è per nulla facile scrollarsela di dosso. Alcuni team radio "pepati" non fecero altro che contribuire alla sua fama. Certo, la F1 non è uno sport per educande. Ma un conto è che certi atteggiamenti arrivino da piloti affermati - vedi Fernando Alonso - o da giovani dal talento eccezionale, come Max Verstappen. Un altro è che arrivino da chi deve ancora dimostrare tutto. Certe nomee possono davvero fare la differenza in una carriera.
E così, nonostante Pascal avesse colto tutti i punti ottenuti dalla Sauber nel 2017, gli fu preferito Ericsson, che portava con sé anche una dote economica di tutto rispetto. Chiusa definitivamente la porta della F1, Wehrlein tornò nel DTM, categoria di cui era stato il campione più giovane di sempre qualche anno prima. Poi, l'approdo in Formula E, categoria in cui, dopo una parentesi con la Mahindra, milita in Porsche da diversi anni. Di giovani con la testa calda ne sono passati molti, ma non possiamo fare a meno di chiedere cosa avrebbe potuto ottenere Wehrlein se il suo carattere non gli avesse fatto guadagnare il terribile soprannome di Principessa Pascal (o almeno così sosteneva ai tempi un'altra prima donna del paddock, Will Buxton).
Sébastien Buemi è una delle prime vittime illustri del tritacarne Red Bull in Formula 1, e non è l'unico di questa lista. Debuttò in Formula 1 in una maniera del tutto inusuale, guidando la Medical Car al posto del solito pilota, l'indisposto Jacques Tropenat, in Giappone nel 2008. L'anno successivo l'esordio vero e proprio, con la Toro Rosso. Affiancato da Sébastien Bourdais prima e da Jaime Alguersuari poi, fu il miglior rookie della stagione 2009. Rimase alla scuderia di Faenza per altri due anni. A fine 2011, sia Buemi che Alguersuari furono tagliati dalla Red Bull. Daniel Ricciardo e Jean-Eric Vergne erano pronti a sostituirli in Toro Rosso.
Con Mark Webber e Sebastian Vettel confermatissimi, non c'erano altre possibilità di collocazione nelle fila dei due team della Red Bull. Fu la prima occorrenza di un problema che si sarebbe ripresentato più volte nel corso degli anni. Con un vivaio florido come è stato per anni quello della galassia del colosso degli energy drink, bisognava necessariamente evolversi per sopravvivere. E Buemi non riuscì nel suo intento. Pur rimanendo nelle grazie della Red Bull - è stato pilota di riserva del team di Milton Keynes per dieci anni - Sébastien dovette trovare un altro mondo in cui esprimersi. E trovò terreno fertile nel WEC, campionato all'epoca agli albori.
Correva il 2012 quando, nella prima stagione del mondiale Endurance nella sua attuale iterazione, Buemi siglò un'intesa con Toyota destinata a durare nel tempo. È cambiato tutto, in questi dieci anni abbondanti, dal regolamento tecnico a quello sportivo, ma Sébastien e Toyota sono rimasti sulla cresta dell'onda. Buemi ha vinto quattro volte a Le Mans - due delle quali con Fernando Alonso nell'equipaggio insieme a Kazuki Nakaijma - e ha colto quattro titolo mondiali nel WEC e uno pure in Formula E, categoria che ha sposato sin dagli albori. Un CV di questo profilo non può che costituire un'ottima prova del fatto che Buemi avrebbe potuto e dovuto avere un'altra chance in F1.
Si parlava di sedotti e abbandonati di casa Red Bull, un argomento cui, peraltro, quest'anno abbiamo pure dedicato una retrospettiva, dopo il licenziamento di Nyck De Vries dall'Alpha Tauri. Del novero fa parte anche Jean-Eric Vergne. Fu proprio lui a chiudere indirettamente la porta della F1 a Buemi, formando una coppia del tutto inedita con Daniel Ricciardo. Vergne mostrò sin da subito qualità interessanti, ma quando fu il momento di giocarsi il posto di Mark Webber in Red Bull, destinato a ritirarsi a fine 2013, ad avere la meglio fu Daniel Ricciardo. A JEV restò un'ultima chance con la Toro Rosso, nella stagione 2014, in cui si ritrovò accanto Daniil Kvyat.
Tra errori suoi e problemi tecnici, Vergne non lasciò il segno. Non aiutò certo il fatto che, nell'agosto del 2014, la Red Bull annunciò l'ingaggio di Max Verstappen in Toro Rosso l'anno successivo, lasciandolo di fatto a piedi. Le carte in tavola sarebbero cambiate nuovamente con l'ufficialità del passaggio di Vettel in Ferrari. Ma il sedile rimasto vacante a Faenza per la promozione di Kvyat in Red Bull al fianco di Daniel Ricciardo sarebbe finito a Carlos Sainz. Fiero e anche un po' cocciuto, Vergne decise che non avrebbe accettato un'offerta da parte di un team modesto. Preferiva correre in altre categorie, anziché languire nelle retrovie della F1. E non avrebbe cambiato opinione nel tempo.
A fine 2014 Vergne debuttò nella neonata Formula E, categoria di cui si sarebbe laureato campione del mondo per due volte consecutive, nel 2017-2018 e nel 2018-2019. Da un paio di anni è anche impegnato nel WEC, come pilota ufficiale di Peugeot. Molto intelligente e senza peli sulla lingua, Jean-Eric da intervistato regala sempre spunti interessanti, a patto che lo si prenda per il verso giusto. Lo vedremmo benissimo come team principal una volta dismessi i panni del pilota. E chissà che allora per lui non arrivi davvero una seconda chance in Formula 1, quella che ha rifiutato categoricamente per evitare di restare nelle retrovie.
Kamui Kobayashi alla guida ha sempre avuto personalità da vendere. Chi scrive se ne accorse ben prima che arrivasse in Formula 1. Era il 2008, e da semplice tifosa assistetti alla lotta senza esclusione di colpi tra Kamui e Romain Grosjean a Barcellona in quella che all'epoca si chiamava ancora GP2. Due anni più tardi, Kobayashi sarebbe arrivato in Formula 1 come pilota ttitolare della Sauber, team in cui avrebbe militato per tre stagioni. Era bastato un paio di apparizioni con la Toyota in sostituzione di Timo Glock a fine 2009 per consentirgli di trovare una collocazione sullo schieramento per l'anno successivo nonostante la casa giapponese avesse deciso di lasciare la F1.
La miglior stagione di Kobayashi in F1 arrivò nel 2012. Quell'anno fu capace di qualificarsi secondo a Spa, ma non riuscì a capitalizzare l'exploit in qualifica venendo coinvolto in un incidente con altre quattro vetture alla partenza. Il vero momento di gloria fu però il podio colto a Suzuka davanti al pubblico di casa. Nel GP del Giappone del 2010 divenne il primo nipponico a classificarsi nei primi tre in casa dal 1990, quando Aguri Suzuki era salito sul podio proprio a Suzuka, e il primo giapponese nella top three dopo l'exploit di Takuma Sato a Indianapolis nel 2004.
Lampi, questi, che avrebbero meritato una vera seconda chance, non come quella vissuta con la Caterham nel 2014. Quell'esperienza in un team modestissimo finì con delle apparizioni a singhiozzo, dovute alla procedura di amministrazione controllata in cui era finita la scuderia sul finire della stagione. Dopo quello smacco, Kobayashi si dedicò all'endurance, diventando uno dei piloti di punta di Toyota Gazoo Racing. Un'avventura di lunghissimo corso che continua oggi. Con un doppio impegno, visto che oggi Kamui oltre al suo ruolo da pilota è pure dirigente. Chiuse così idealmente il cerchio che non era stato completato anni prima, quando Toyota se ne era andata all'improvviso dalla F1.