Andrea de Adamich: «La mia Formula 1 e le altre due vite»

Andrea de Adamich: «La mia Formula 1 e le altre due vite»
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Il primo gennaio 1968, un italiano di ventisette anni esordiva nel mondiale di Formula 1, a bordo di una Ferrari ufficiale. Nel giro di qualche anno si sarebbe rotto due vertebre e due gambe, prima di diventare un imprenditore di successo e rappresentare, per tutta Italia, il volto del motorsport in televisione. Intervista fiume con Andrea de Adamich che, dei piloti moderni, dice: «non saprebbero neanche farsi un biglietto del treno»
4 agosto 2018

Primo gennaio 1968, Kyalami, Sud Africa, prima prova del Campionato del Mondo di Formula 1. Sulla griglia di partenza, tra gli altri: Jim Clark, Graham Hill, Jackie Stewart. In mezzo a loro un debuttante italiano. Ha ventisette anni e guida una Ferrari ufficiale. In qualifica ha fatto segnare il settimo tempo. La sua è la prima, tra le vetture del Cavallino. I suoi compagni di squadra sono Chris Amon e Jacky Ickx, distanziati rispettivamente di due decimi e di un secondo e tre. Il suo nome è Andrea de Adamich.

Maggio 2018, Varano De’ Melegari, Centro Internazionale Guida Sicura. Dopo essere stato una giovane promessa dell’automobilismo e un pilota apprezzato a livello internazionale, Andrea, ha vissuto - almeno - altre due vite. È diventato un imprenditore di successo, un giornalista che - con il suo volto e la sua voce - nel nostro Paese è oramai sinonimo di automobilismo sportivo, e il creatore della serie di corsi di guida probabilmente più rinomata al mondo. Impossibile vederlo parlare senza sentir riecheggiare, nella propria testa, quel giro di piano che per tre generazioni buone è stato in grado di trascinare davanti alla televisione qualsiasi appassionato di motorsport ogni domenica mattina. Un riflesso pavloviano che porta impresso il nome di Grand Prix, la celeberrima trasmissione in onda dal 1978 al 2013, prima sul canale Quinta Rete e poi su Italia 1. La stessa che ha ospitato Guido Meda, Giorgio Terruzzi e il nostro Nico Cereghini. Varano, per de Adamich, è sinonimo di casa. È qui che Andrea abita dal 1990 ed è qui che, dal 1990, si occupa dei corsi che organizza, oggi, per conto di Alfa Romeo, Maserati e Ferrari. È qui che siamo venuti per incontrarlo.

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Andrea de Adamich, oggi, nella "sua" Varano de' Melegari. Foto: Giorgio Serinelli
Andrea de Adamich, oggi, nella "sua" Varano de' Melegari. Foto: Giorgio Serinelli

Com’è andata a finire a Kyalami? «Ero settimo in griglia. Pronti via, parto abbastanza bene, ma vengo passato da Amon. Mi sembrava di tirare poco, pensavo che l’avrei superato nel giro di qualche passaggio. Dopo 13 giri, al tornante prima del traguardo, una macchia d’olio non segnalata. Amon riesce a scartarla, io ci passo sopra e mi giro, sbattendo con l’anteriore: ritirato. Ma in realtà, quella del 1968, non è stata la prima in assoluto a bordo di una Formula 1». Ah, no? E quale è stata? «All’epoca, per correre una gara del Campionato del Mondo, bisognava averne corsa almeno un’altra non valevole per il mondiale, nell’anno precedente. Nel 1967, tramite Marcello Sabbatini, direttore di Autosprint, sono stato chiamato per un test sulla Ferrari 312, a Modena. Quella era una pista pazzesca, eh. Se sbagliavi una frenata finivi sulla Via Emilia. La macchina era preparata per Chris Amon, quindi con l’abitacolo per uno piccolo. Io sono alto più di un metro e ottanta, ma non c’era tempo per sistemare i pedali. Sai, a quei tempi si finiva per pensare che sarebbe stato il pilota ad adattarsi. Non avevo mai guidato una macchina con quel rapporto peso/potenza: 440 CV, per 500 Kg. Morale, al secondo giro mi ricordo di aver pensato: non è il mio mestiere. E invece torno ai box e viene fuori che ho fatto dei tempi competitivi. Così decidono di mandarmi a provare a Monza, con l’obiettivo di farmi debuttare in Spagna, a Jarama. A Monza giro meglio dei tempi fatti segnare da Amon durante le qualifiche del precedente Gran Premio d’Italia. In Ferrari, tutti sbalorditi. Allora mi mandano a Vallelunga. Lì giro un secondo sotto al tempo di Ickx, che aveva fatto il record con la Formula 2. Insomma, in Ferrari si convincono e mi spediscono a correre in Spagna, dove buco una posteriore, a dieci giri dalla fine, ma dove corro bene. Tanto che mi viene proposto un contratto, per il 1968, per sei gare di Formula 1 e per tutto il campionato Europeo di Formula 2».

Andrea de Adamich, nel 1970, ai tempi della McLaren motorizzata Alfa Romeo
Andrea de Adamich, nel 1970, ai tempi della McLaren motorizzata Alfa Romeo

E, poi, dopo Kyalami, come sono andate le altre gare, nel 1968? «Tre mesi dopo, a Brands Hatch, sono al via della Corsa dei Campioni, una gara che si correva all’epoca, non valida per il Campionato del Mondo, ma aperta alle vetture di Formula 1. Pista mai vista. Prime prove: do due decimi a Ickx e ne prendo otto da Amon. Ai box penso: “perché solo due decimi a Ickx? E come faccio a prenderne otto da Amon?”. Cioè, capisci? Ero un debuttante ma davo per scontato di riuscire ad essere più veloce. Risultato? Secondo turno di prove, rettilineo dopo i box. Lì c’era un dosso. Nei turni precedenti avevo sempre frenato prima di oltrepassarlo, lo avevo preso come riferimento. Ho voluto provare a frenare dopo, ma non sono riuscito a fermarmi. In quel punto c’era la postazione dei commissari, senza protezione. L’ho presa in pieno. La macchina ha preso fuoco e io mi sono rotto due vertebre cervicali». Urca, pesante. «La terza e la quarta. Ma non avevo dolore. Sì un po’ alle spalle, eccetera…». Hai avuto paura? «La paura mi è venuta dopo, per come mi hanno trattato i dottori inglesi: mi hanno messo un collarino di gomma piuma e mi hanno rispedito in Italia. Quando mi hanno visitato al Gaetano Pini, uno dei primari - un mio amico - mi ha detto: “Andrea sei fortunato. Adesso stai fermo però”. Tre mesi e mezzo di minerva gessata! Quella “imperiale” eh, che comprendeva anche la fronte. Per fortuna mi ero rotto anche un dente e con la cannuccia riuscivo a mangiare un po’. Quando sono dimagrito, ho cominciato a masticare anche un pochino». Ma scusa, ma in Inghilterra nessuno si era accorto di niente? «Alla London Clinic volevano che stessi a letto col cuscino dietro alla testa, ma a me faceva male il collo e quindi me lo toglievo. E l’infermiera: “No! Deve mettersi sdraiato con il cuscino!”. E io: “No, ho male!”. E lei continuava a spingermi giù. Oh, ho dovuto tirarle un pugno in faccia! Manca un pelo che mi buttano fuori dall’ospedale».

«L'infermiera continuava a spingermi giù. Oh, ho dovuto tirarle un pugno in faccia! Manca un pelo che mi buttano fuori dall’ospedale»

E con Ferrari, sei tornato a correre, poi? «Dopo che mi sono ristabilito ero pronto a correre in Canada, al posto di Ickx, che si era rotto una gamba, mi pare. Mi sono detto: “Va be’, andrò io”. Ma Ferrari non era dello stesso avviso». Come te lo ha fatto capire? «Nel suo ufficio, dopo averglielo chiesto espressamente mi ha detto: “Lei tornerà a correre su una mia macchina quando glielo dirò io!”. Quello della Ferrari era un ambiente troppo professionale per la mia esperienza. Per dire, quando ho firmato il contratto, Forghieri era in Tasmania e credo che non avesse preso benissimo il fatto di essere stato scavalcato da Ferrari, nella scelta di un pilota italiano del dopo Bandini. Mi ricordo che, a Jarama, avevo fatto il quarto tempo in prova e lui non mi diceva di stare più tranquillo, che stavo andando troppo forte, di stare più calmo. Avrebbe dovuto fare così, come tutor. Invece mi diceva: “Sai, nella curva prima del traguardo, vedo gli altri più veloci di te”. Poi, dopo otto mesi che non guidavo, in dicembre, mi hanno mandato a correre la Temporada Argentina - il campionato nazionale aperto a tutti, riservato alle Formula 2. Ho vinto gare e Campionato, davanti a Rindt, Courage, Siffert e Reutemann. Anche Regazzoni correva quell’anno. Quando sono tornato in Italia, però, ho capito che un altro errore con Ferrari mi avrebbe rovinato la carriera e ho deciso di cercare posto altrove. Però, sai, una cosa che ho imparato, dalle corse, è che non bisogna lamentarsi mai».

Nella foto di sinistra, da sinistra a destra, in piedi durante il briefing del GP del Sudafrica del 1973: Peter Revson (McLaren), Jackie Stewart e François Cevert (Tyrrell), Jody Scheckter (McLaren), Emerson Fittipaldi (Lotus), Niki Lauda (BRM), Andrea de Adamich e José Carlos Pace (Surtees), Clay Regazzoni e Jean-Pierre Beltoise (BRM). A terra, da sinistra a destra: Denny Hulme (McLaren), George Follmer (Shadow) e Ronnie Peterson (Lotus). Nella foto di destra, Andrea è il vincitore della Temporada del 1968, su Dino 166
Nella foto di sinistra, da sinistra a destra, in piedi durante il briefing del GP del Sudafrica del 1973: Peter Revson (McLaren), Jackie Stewart e François Cevert (Tyrrell), Jody Scheckter (McLaren), Emerson Fittipaldi (Lotus), Niki Lauda (BRM), Andrea de Adamich e José Carlos Pace (Surtees), Clay Regazzoni e Jean-Pierre Beltoise (BRM). A terra, da sinistra a destra: Denny Hulme (McLaren), George Follmer (Shadow) e Ronnie Peterson (Lotus). Nella foto di destra, Andrea è il vincitore della Temporada del 1968, su Dino 166

Come mai? «Nel 1973, a Silverstone, mi sono rotto tutte e due le gambe. Jody Scheckter si è girato dopo il via e ci siamo finiti dentro in quindici. Una March ufficiale era partita un po’ in ritardo e, quando è arrivata al curvone, è finita in pieno contro le macchine ferme, prima di sbattere contro il muretto. Stava viaggiando a 280 Km/h. La macchina si è divisa in due. Il pilota si è slacciato le cinture - c’è un filmato della BBC - ed è andato verso i box. Così, a piedi, come se non fosse successo nulla. Io dal letto d’ospedale ho visto queste immagini e ho pensato: “Ma porca miseria, un braccio a lui e una gamba a me, no?”. Quindici giorni dopo, Gran Premio d’Olanda, la stessa March, lo stesso pilota, Williamson, si rovescia. Si vedeva che cercava di uscire dall’abitacolo. Dopo qualche istante la macchina ha cominciato a prendere fuoco e lui è morto bruciato vivo. E lì, dalla mia sedia rotelle, ho detto: “Ok, non mi devo lamentare”». Tornando al 1968, di tutto quello che stava succedendo al di fuori delle corse, voi, cosa pensavate? «Niente di particolare. Non è mai esistito un rapporto con quel tipo di situazione. Nel nostro ambiente non filtrava niente». Che Formula 1 era quella di quel periodo? «Beh era una Formula 1, parlo genericamente, molto bella e genuina. I grandi, come Clark, Brabham, eccetera, mi trattavano come se fossi uno di loro, nonostante fossi al debutto. E non credo che ciò dipendesse dal fatto che guidavo una Ferrari. C’era massima disponibilità, era un bell’ambiente. E, poi, in gara, c’era un enorme rispetto per l’avversario, cosa che, secondo me, non esiste più. Nessuno faceva le furbate che vedi adesso. Anche perché, all’epoca, quando sbagliavi, la pagavi cara»

Negli uffici dell'autodromo di Varano de' Melegari. Foto: Giorgio Serinelli
Negli uffici dell'autodromo di Varano de' Melegari. Foto: Giorgio Serinelli

Come ci si relazionava con questa perenne sensazione di pericolo? «Lo accettavi, perché faceva parte del mondo in cui vivevi anche al di fuori delle corse. In quegli anni le strade camionabili e diverse autostrade avevano il sorpasso alternato. Quando hanno cominciato a fare gli Autogrill che attraversavano la carreggiata, con il pilone al centro, non c’era neanche un guard rail a proteggerlo. Se un camion ci finiva contro, tirava giù tutto l’Autogrill. Tu guidavi su strade del genere e quando arrivavi a Monza ti sembrava quasi meno pericolosa di quella che facevi tutti i giorni». Quindi secondo te i piloti di allora non erano più coraggiosi di quelli di adesso? «Il coraggio, per chi arriva in Formula 1, non esiste. Altrimenti vorrebbe dire che i piloti non soltanto hanno paura, ma sono pure degli incoscienti. Ma non funziona così. Chi arriva a quel livello sa perfettamente quello che sta facendo». La passione è sempre più forte della sensazione di pericolo? «Io ho vissuto la chiusura di Spa, a seguito delle lamentele dei piloti. Tieni presente che, sul giro secco, con un tornante da prima, la Porsche 917 girava a 263 Km/h di media. Noi, coi prototipi tremila, facevamo i 245 Km/h. Di media! C’era un punto in cui dovevi fare un cambio di direzione che se sbagliavi o ti arrivava una mosca sul naso, finivi contro lo spigolo di un palazzo. Ho corso a Caserta con la Formula 3, nel 1967, quando è morto Geki Russo. Nella stessa gara, è morto un ragazzo di Milano, Romano Perdomi, e lo svizzero Fehr, travolto proprio da Russo mentre cercava di segnalare il pericolo alle auto che sopraggiungevano. Quando hai superato cose del genere capisci che non è né coraggio, né incoscienza, lo ribadisco. Se qualcuno è arrivato in Formula 1 così… con il coraggio, non è durato».

Sul rettilineo dell'autodromo di Varano de' Melegari. Foto: Giorgio Serinelli
Sul rettilineo dell'autodromo di Varano de' Melegari. Foto: Giorgio Serinelli

E la tua famiglia cosa pensava di quello che facevi? Non erano preoccupati? «All’inizio della mia carriera ho corso in alcune gare in salita di nascosto, su una Triumph TR3, normalissima. Era l’auto che usavo tutti i giorni! Provavo il tracciato disegnando le curve su un foglio. Non sapevo come prepararmi, non avevo un tutor. Allora i numeri di gara si facevano a mano, con la vernice. Poi li potevi cancellare. Così ho corso le prime due gare, senza dirlo a mia madre. Lungo il percorso, però, c’era un fotografo, che mandava poi le foto a casa, con il contrassegno. Un giorno arriva il postino a casa mia, con una busta. Mia madre paga, la apre e mi trova seduto in macchina che corro. Allora io le dicevo: “Mamma, vado bene a scuola, è la mia passione, lasciami correre”. E lei è venuta a vedermi a tante gare, alla Targa Florio veniva sempre - anche se non aveva idea di cosa volesse dire correre la Targa Florio a quei tempi». Tu hai fratelli o sorelle? «Avevo un fratello di quattro anni più anziano di me. È morto in un incidente stradale mentre raggiungeva un cliente, a Padova, dopo essere stato a trovare mia madre a Vicenza. È morto per strada, da solo, sotto la pioggia. Era il 1964 e, in questa cosa, in qualche misura centrava, appunto, anche mia madre». Nonostante questo… «Nonostante questo era una donna in gamba, forte e brava. Mi ha sempre lasciato libero di vivere la mia passione, il mio mondo. È stata formidabile anche da questo punto di vista».

A sinistra Andrea de Adamich, prima della partenza della 24 ore di Le Mans del 1972, che concluderà quarto assoluto, a bordo di una Alfa Romeo 33-3 del team Autodelta, in compagnia di Nino Vaccarella (foto: Robert B. Little). Nella foto di destra, a Imola, nel 1969, su Alfa 33-3
A sinistra Andrea de Adamich, prima della partenza della 24 ore di Le Mans del 1972, che concluderà quarto assoluto, a bordo di una Alfa Romeo 33-3 del team Autodelta, in compagnia di Nino Vaccarella (foto: Robert B. Little). Nella foto di destra, a Imola, nel 1969, su Alfa 33-3

Com’è cambiata la Formula 1 in questi anni? «Penso che i piloti dei mie tempi fossero nettamente più attrezzati, da un punto di vista culturale, rispetto a chi corre oggi. Per arrivare in Formula 1 c’era tutta una trafila: si faceva il turismo, la Formula Junior, la Formula 3, la Formula 2 e poi si arrivava in Formula 1. Non era come oggi, in cui si passa dal go-kart, alla formula propedeutica, alla Formula 1. E poi non c’erano i media, non c’erano le dirette tv, la Rai passava la replica giusto di qualche gara. Era un ambiente meno chiuso su sé stesso, i piloti erano persone più “normali”. Non c’era quello che arrivava in elicottero. Per darti un’idea, al mare, in Liguria, a Levanto, sono venuti a trovarmi John Surtees e la moglie, Ronnie Peterson e Barbro, che all’epoca era la sua fidanzata, le famiglie Fittipaldi e Reutemann. Venivano a Levanto, ospiti miei. Te lo immagini Vettel che va a Levanto? Non esiste. Dico Vettel per dire Hamilton, eh. Tutta quella gente lì. C’è ancora una pizzeria che ha le nostre firme, fatte col punteruolo arroventato, sul muro. Oggi i piloti non sanno nemmeno cosa succeda al di fuori dalla porta di casa loro. Non saprebbero neanche farsi un biglietto del treno da soli, secondo me. Cioè, si fanno pulire anche il casco! Ai miei tempi - ma non ti parlo di me, eh, ti parlo di gente come Clark - il tuo casco non te lo toccava nessuno. Nessuno! Te lo preparavi da solo anche per una questione di sicurezza. Io mi andavo a comprare personalmente gli occhialoni da sci che usavo con il casco jet. Li provavo, eccetera. Oggi figurati se Vettel va in un negozio di articoli sportivi a comprarsi una cosa. Ma questo vale per tutti, anche l’ultimo dei giovani, appena arrivato».

«A Levanto, sono venuti a trovarmi John Surtees e la moglie, Ronnie Peterson e Barbro, le famiglie Fittipaldi e Reutemann. Te lo immagini Vettel che va a Levanto?»

Quando hanno cominciato a cambiare le cose, secondo te? «Mah, sai, Senna è stato il primo che ha iniziato a fare un po’ l’attore, lo showman. Tutti quei gesti, quelle urla dall’abitacolo, quella cosa del tipo “ho quattro marce ma tengo dietro tutti quelli che ne hanno sei”. O come quando è andato sul podio e non riusciva a tirare su la coppa col braccio. Senna è stato un grande pilota ma dal punto di vista umano… Quel periodo io l’ho vissuto da giornalista, perché dal 1991 al 1998 avevamo le dirette, su Mediaset, della Formula 1. Lui ha portato quel modo di fare nel mondo della Formula 1. Era uno che snobbava le interviste. Le voleva perché gli facevano comodo, però era capace di far aspettare una troupe di dieci persone perché stava prendendo un caffé con un suo amico. E questa cosa ha influito anche sui piloti che sono venuti dopo, perché essendo un vincente, i più giovani hanno cominciato ad imitarlo. L’altro, dopo di lui, è stato Schumacher. Quando Schumacher ha tamponato Coulthard, a Spa, sembrava Marquez che va a scusarsi, davanti alle telecamere…».

Nel retro dei box dell'autodromo di Varano de' Melegari. Foto: Giorgio Serinelli
Nel retro dei box dell'autodromo di Varano de' Melegari. Foto: Giorgio Serinelli

Sì, solo che Schumacher voleva fargli la pelle, a Coulthard. «Ma nelle condizioni in cui guidavano, non puoi lamentarti. Coulthard faceva quello che poteva. Quando c’è tutto quell’aquaplaning e visibilità zero negli specchietti, non sai davvero cosa fare se non… guardare soltanto davanti con la massima concentrazione. Sono situazioni in cui fai i rettilinei in quarta perché hai paura di perdere il controllo. Poi, però, arriva gente che dice io sono io, tutti gli altri si devono spostare. È di sicuro un discorso che ha a che fare con la cultura familiare. Pensa alla persona più a modo degli ultimi anni: Nico Rosberg. Suo padre e sua madre sono due persone formidabili. A parte tutte le lingue che gli hanno insegnato, anche il modo di fare, il suo comportamento privato è stato sempre quello di una persona che aveva alle spalle una famiglia che gli ha insegnato come comportarsi. Non credo che questa cosa sia avvenuta con tutti gli altri piloti». Che impressione ti fa un Hamilton, adesso? Sembra quasi che gli vada stretta, questa Formula 1. Come se avesse già preso tutto quello che poteva prendere, da questo sport, da questo ambiente. «Be’ no, dai, non direi. Quando sei competitivo in uno sport come la Formula 1 non smetti perché ti sei stufato. Quando smetti lo fai perché, come Rosberg, capisci che avresti avuto una vita difficilissima, rischiando di fare come ha fatto Schumacher, con la Mercedes, quando proprio Rosberg lo bastonava a destra e a sinistra. Certo, lui aveva un passato così importante che non è riuscito a depauperarlo completamente, però, a un certo punto, la gente ha cominciato a dire: “ma sto Schumacher?”. Hai capito? Con questo fatto di voler continuare a correre più per una questione contrattuale che per l’aspetto agonistico, aveva perso molto, a livello di immagine, secondo me». Anche se adesso si dice che la Mercedes sia così forte anche grazie al lavoro che proprio Schumacher ha svolto, in quel periodo, dal punto di vista dello sviluppo. «Sai, ho visto il film di Ron Howard, Rush. Fanno vedere questo Lauda, che arriva e migliora di tre secondi le prestazioni della macchina, grazie ai suoi suggerimenti. Howard ha scritto un film per Hollywood, non un film per la realtà. La realtà è molto più modesta, concreta…».

«Andavo forte ma non ne capivo il perché. La cosa che mi muoveva era sempre l’agonismo, il fatto di lavorare per raggiungere un obiettivo»

Tu che pilota eri? Eri aggressivo? «No, aggressivo nel senso di far prendere rischi agli altri no, aggressivo nella testa sì. Infatti, come ti dicevo, andavo forte ma non ne capivo il perché. La cosa che mi muoveva era sempre l’agonismo, il fatto di lavorare per raggiungere un obiettivo. Anche negli affari». Ecco, appunto, parliamo della tua vita da imprenditore e della tua carriera da giornalista. «Io ero un pilota Marlboro e venivo impiegato anche per l’attività di comunicazione. Non voglio fare il presuntuoso ma ero bravo a parlare e mi usavano come PR in certe situazioni. Loro sapevano che ero un po’ indeciso sul fatto di proseguire o meno la mia attività di pilota. Ormai avevo dato tutto, con le gambe che un po’ risentivano dell’incidente, delle fratture del 1973. Nel 1974 ho corso ancora un anno coi prototipi. Non ho fatto più la Formula 1, non ero all’altezza coi piedi, ma ho vinto il campionato italiano assoluto. Però, insomma, avevo già più o meno deciso che avrei smesso. E così la Philip Morris mi ha proposto di gestire l’attività di vendita dei loro materiali promozionali. A quel punto io gli ho fatto una controproposta: “Datemi in concessione il marchio Marlboro e io ci faccio una linea di abbigliamento: Marlboro Leisure Wear, abbigliamento per il tempo libero”. L’idea è piaciuta e io ho creato un’azienda, la Andrea de Adamich SpA, con la quale ho gestito la licenza del marchio in Italia, Europa, Middle East, estremo oriente e Sud America. Poi, nel 1985, ero diventato troppo grande, mi è arrivata una proposta dai Marzotto e ho accettato».

Foto: Giorgio Serinelli
Foto: Giorgio Serinelli

Come è nato il Centro Internazionale Guida Sicura? «Quando, nel 1986, la FIAT ha comprato l’Alfa Romeo dall’IRI, hanno cominciato a pensare di produrre modelli a trazione anteriore. Temevano, però, che questa scelta potesse intaccare l’immagine sportiva del marchio. Così, hanno deciso di contattarmi. Il mio nome era quello che più di ogni altro rappresentava la storia sportiva recente dell’Alfa. Io gli ho detto: “Guardate che, fino a 300 e rotti cavalli, una trazione anteriore è più sicura di una posteriore nella guida di tutti i giorni. Appena il fondo è viscido, le prime a volare fuori strada sono appunto le trazioni posteriori” - e ti parlo delle auto di allora, senza ESP, senza traction control, qualche ABS qua e là. E così li ho convinti a seguirmi in questo progetto». E, in tutto questo, la televisione? «Ah, già, scusami, è che io ho considerato sempre la tv come un’attività professionale sì importante, ma parallela a quello che per me era il vero lavoro. In sostanza, nel 1975, mi hanno chiamato quelli di Rusconi Editore, che all’epoca era proprietaria di Antenna Nord, per fare Grand Prix. Quando Berlusconi l’ha comprata, l’ha fatta diventare Italia 1 e l’unica cosa che ha deciso di tenere, è stata proprio la mia trasmissione e… me. Siamo andati avanti fino al 2013, sempre con un buon successo. Abbiamo avuto la diretta della Formula 1, per sei anni. Avevo un compagno formidabile, Guido Schittone, e una compagna che era diventata una protagonista, Claudia Peroni. Poi penso che Piersilvio Berlusconi abbia deciso di chiudere tutti i rapporti con il mondo dei motori e ha lasciato che anche la MotoGP approdasse a Sky, che fa un ottimo lavoro per altro».

«Io ho sempre considerato la tv come un’attività professionale parallela a quello che per me era il vero lavoro»

È una parentesi lunghissima, che liquidi in poche parole. La tv è sempre stata una cosa parallela, quindi. «Sì, perché era qualcosa che non producevo - passami l’espressione - da solo. La struttura non era mia, era di Mediaset. Con l’abbigliamento ero io l’imprenditore, avevo una società, i dipendenti, eccetera. E lo stesso vale oggi per il mio Centro Guida Sicura. Pensa che all’inizio, per il mio progetto Marlboro Leisure Wear, stavamo cercando uno stilista. Io e il mio socio ci siamo guardati in giro e abbiamo individuato una collezione tennis dell’Australian che ci piaceva. L’aveva fatta un giovane, uno che era appena uscito dalla Rinascente, dove faceva il buyer. Gli abbiamo fatto disegnare una serie di capi. Era Giorgio Armani, di cui ho ancora tutti i disegni originali». Quindi il tuo vero talento è fare il manager! «Di recente, un prestigioso brand sportivo italiano ci ha incaricato di sviluppare una serie di corsi di guida negli Stati Uniti. Noi abbiamo attività in tutto il mondo, ci occupiamo di eventi, formazione, presentazione prodotto. Faremo base ad Indianapolis. Per me è un enorme traguardo. È il mercato più importante al mondo, per il mondo auto sportive. È proprio quello di cui ti parlavo prima: il lavoro, l’impegno, la concentrazione per raggiungere un obiettivo. È una nuova sfida ma, allo stesso tempo, una grande soddisfazione. È adrenalina, è agonismo, è come vincere un Gran Premio».

Nei box dell'autodromo di Varano de' Melegari. Foto: Giorgio Serinelli
Nei box dell'autodromo di Varano de' Melegari. Foto: Giorgio Serinelli
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