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Da un lato l'Unione, che con Euro 7 e “Fitfor55” spinge per la mobilità elettrica; dall'altro le aziende, che pur avendo imboccato la strada per uscire dalla dipendenza dal petrolio vorrebbero maggiore elasticità: un braccio di ferro però non conviene a nessuno e forse è arrivato il tempo di stabilire insieme una road map credibile e sostenibile per tutti.
Riassumiamo i dettagli del discorso: la Commissione europea ha indicato il 2035 come limite per la commercializzazione di veicoli che non siano solo elettrici, obiettivo certo ambizioso, verso il quale spingono forte i vertici politici e che sancirebbe l'addio ai veicoli endotermici.
Ma c'è dell'altro, ad iniziare dalla prossima normativa Euro 7, che tanto agita i sonni dei costruttori: dovrebbe diventare operativa nel 2026, ma il condizionale è d'obbligo viste le trattative in corso per definire gli standard, che potrebbero essere meno stringenti rispetto alla prima stesura del documento, per via della richiesta di maggiore elasticità da parte delle Case, che ne vorrebbero anche posticipare l'entrata in vigore, spostandola di almeno dodici mesi, se non addirittura ventiquattro.
In realtà, quello a cui potremo assistere nel prossimo futuro è una delicata partita a scacchi, con i bianchi mossi dall'Unione ed i neri da Acea, l'associazione che riunisce in ambito continentale le aziende costruttrici.
Queste ultime hanno da recuperare posizioni a livello di immagine, fortemente scalfita da vicende poco edificanti come quella del Dieselgate e che hanno oscurato quasi del tutto il notevole impegno (soprattutto in termini economici) profuso per rendere più pulita ed efficace la tecnologia dei motori termici, diesel in primis con gli standard Euro 6d.
Il mondo dell’auto è ben consapevole che occorre lavorare per attivare serie politiche di contrasto ai cambiamenti climatici, ma è ovvio che con le imposizioni ed i diktat non si va molto lontano: Carlos Tavares, AD del gruppo Stellantis, nel definire la transizione verso l’auto elettrica «una brutale imposizione calata dall’alto» ha inteso rimarcare proprio la mancata partecipazione delle industrie alle discussioni che hanno poi portato alla definizione del piano “Fitfor55".
Ma se i costruttori non sono riusciti a far arrivare la loro voce ai piani alti di Bruxelles, è ora tempo di invertire la rotta, proponendo grazie alla conoscenza tecnologica approcci meno tassativi e che non abbiano il solo elettrico come obiettivo finale.
Una visione multi-tecnologica, che prenda in considerazione altre soluzioni capaci di abbattere l’inquinamento, come i carburanti sintetici e l’idrogeno, utilizzabili attraverso la rete di infrastrutture già esistente e senza prevedere sforzi supplementari al tessuto industriale europeo.
L'importante è sviluppare un coordinamento tra istituzioni di Bruxelles e aziende, puntando ad una proficua collaborazione che non disperda il patrimonio di competenze e tradizioni manifatturiere europee e per non lasciare terreno di conquista ad altri concorrenti globali, relegando l’Europa a una condizione di pericolosa subalternità rispetto a competitor come la Cina.
La crisi dei chip, da questo punto di vista, dovrebbe aver insegnato qualcosa...