Verzeletti «La PanDakar va forte, ma non è un prototipo. Questo limite è la nostra sfida!»

Verzeletti «La PanDakar va forte, ma non è un prototipo. Questo limite è la nostra sfida!»
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L’avventura dell’Equipaggio PanDakar interrotta da un ritiro fuori dall’ordinario, ma solo dopo aver battuto un record. Inutile chiedere e Giulio Verzeletti se ci sarà ancora, lo abbiamo fatto già troppe volte | P. Batini
28 gennaio 2014

Valparaiso - Giulio Verzeletti ha fatto la Dakar in Moto, in Auto e con il Camion. In Africa e in Sud America. All’indomani della sua prima avventura in moto del 1996, ma anche alla fine della Dakar 1997, 44mo assoluto all’arrivo del Lago Rosa, Giulio promise che non sarebbe mai più tornato alla Dakar. Ma non ha mai… mantenuto la promessa.

Allora, Giulio, come stai?
«(Inizia ridendo…, ndr)Potrei stare meglio. Sono ancora un po’ stanco. Stavolta me l’hanno fatta sudare. Che avventura! Hai ragione te, sono proprio uno scemo. In effetti te l’avevo detto. “Qui non mi vedrai più!”. E invece…»


Ma sì, ormai sappiamo, è una vecchia storia, e non sei il solo “spergiuro”…

«Ma, guarda, questa volta davvero non mi vedi più a una Dakar…»

Sì, sì, va bene. Passiamo ad altro, qualcosa di più realistico. Intanto, per la Panda questo è un record, se non sbaglio. Undici tappe intere le avete fatte, il peggio era passato e potevate anche farcela fino alla fine. Questo è senz’altro un record importante!
«Chissà, alla Dakar non si può mai dire. Ma la verità è che mi sono fermato perché si è ritirato il nostro camion di assistenza. Non avevamo problemi particolari. Avevamo rotto un montante, perché quella tappa lì era tutta pietre, ma avevamo il ricambio sul camion. Solo che il camion è arrivato tardi. Doveva arrivare entro le 08:50, invece è arrivato alle 09:10 e non l’hanno fatto ripartire».


Insomma, dopo tante notti in bianco, quando già vedevate la luce in fondo al tunnel…
«Ma sì. Solo che sappiamo sempre e molto bene a cosa andiamo incontro, alla Dakar. È così».

pandakar giulio verzelletti dakar 2014 (5)
L'avventura della PanDakar è iniziata nel 2007 come Fiat ufficiale, per poi proseguire la sua corsa attraverso i deserti sotto l'ala di Giulio Verzelletti

 

Com’è iniziata l’avventura PanDakar?
«La “cosa” è nata nel 2007. La PanDakar ha corso con la Fiat, ufficiale. Io, era il secondo anno che correvo con il camion. Quando siamo tornati abbiamo iniziato a parlare con alcuni ragazzi del loro gruppo, che abitano dalle mie parti, e un giorno ho saputo che volevano cedere tutto il Team. Beh, mi sono detto, se mi danno il materiale, le macchine, i ricambi e il Marchio… Vado giù da loro e facciamo quattro chiacchiere. Poi mi fanno vedere tutto quello che avevano e mi lanciano la proposta. Ho detto che ci avrei pensato, poi ho fatto i soliti quattro conti e sono tornato con la mia offerta, che comprendeva logicamente anche Marchio e livrea. Mi piaceva l’idea di dare continuità al progetto, cercare di dare un senso al grande lavoro che avevano già fatto. In breve, ho portato a casa tutto quanto. Abbiamo preparato subito una macchina e siamo andati a provare in Tunisia. Al ritorno abbiamo fatto alcune modifiche, loro nel frattempo ci hanno dato anche delle parti nuove che non avevano fatto in tempo a provare, abbiamo inserito il cambio nuovo, quello “grosso”, e finalmente ci siamo presentati al via della Dakar l’anno dopo. La nostra Pandakar aveva il cambio M32, ma ancora il motore milletré, e ci siamo accorti che su per le dune la macchina non ci andava. Così l’anno dopo siamo tornati con un motore milleenove, sempre con il cambio giusto, ancora un po’ di modifiche, e abbiamo fatto cinque tappe. E l’anno successivo 7. Avevamo due macchine e cercavamo di farle viaggiare sempre insieme. Nel 2011 si sono ritirate tutte e due, una con la frizione bruciata e l’altra con un danno ai differenziali. Era la tappa prima del giorno di riposo, siamo stati in giro tutta la notte e non ce la facevamo più».


E poi?

«Avevamo tutto pronto anche per l’edizione dello scorso anno, ma abbiamo corso solo con i camion, e dunque eravamo prontissimi per l’edizione di quest’anno. Avevamo ancora due macchine. Volevamo portare giù anche Miki Biasion e Alex Caffi, ma poi loro non ce l’hanno fatta a essere della partita, così siamo partiti io e Antonio Cabini, uno tosto con il quale siamo sempre stati “vincenti”, con una macchina soltanto».

La macchina va forte, va veramente forte. Però è sempre una Panda. Non ha il passo di una Mini, e la Mini è un prototipo. La nostra è pur sempre una Panda! Resta una T1, con tante modifiche e miglioramenti


Ma insomma, questa “Pandina” va o non và in una gara come la Dakar?
«La macchina va forte, va veramente forte. Però, Piero, è sempre una Panda. Non ha il passo di una Mini, e la Mini è un prototipo. La nostra è pur sempre una Panda!».

E quali sono i limiti di una Panda?
«Il suo limite è quello di essere piccola. Perciò alla fine l’escursione delle sospensioni, per esempio, e quella che è. Non è che puoi montare gli ammortizzatori che vorresti tu. Resta una T1, con tante modifiche e miglioramenti, ma che stanno tutte dentro le misure di una Panda. Il telaio, per esempio, è preparato dalla Abarth, ma sta tutto dentro alla scocca di una Panda Cross. Perciò siamo riusciti a metterci dentro il cambio, ma sta veramente a filo della carrozzeria. Neanche pensarci di mettere dentro un cambio sequenziale, non ci starebbe fisicamente. L’escursione dei bracci delle sospensioni, togli lo spazio della “slitta” e dei tamponi di fondo corsa, alla fine restano 15 centimetri. Con poca escursione, lì dentro prendi delle “botte” tutto il giorno, e diventa fisicamente un grande impegno. Questi sono i limiti, ma è anche un po’ quello che anima la nostra sfida, è quello che ci piace fare. La sfida è vedere se ce la facciamo. E ce la faremo, prima o poi».

pandakar giulio verzelletti dakar 2014 (9)
Anche a detta del pilota della PanDakar, Giulio Verzelletti, la Dakar 2014 si è dimostrata un'edizione realmente difficoltosa

 

E quindi tante botte e poche ore di sonno. Quanto tempo siete stati senza dormire?
«I conti si fanno abbastanza alla svelta. Quando ci siamo ritirati perché il camion era ormai fuori corsa, erano sessanta ore che non scendevamo praticamente dalla macchina. Al bivacco, appena il tempo si scendere per cambiare due ruote bucate, prendere un po’ di caffè e ripartire. Un’ora, un’ora e mezza il tutto tra una tappa e l’altra. E una settimana prima già avevamo fatto una “nottata”! In ogni caso non contavamo di arrivare troppe volte con la luce del sole».


E quest’anno si può dire che è stata una Dakar micidiale.
«È stata veramente micidiale. Tutto il giorno in mezzo a pietraie, dune o fesh-fesh. Una bella cosa, sì! Più la… PanDakar. La quinta tappa specialmente, con quella “sabbietta” arroventata a ottanta gradi, vedere tutti i motociclisti che non riuscivano ad andare avanti, è stata davvero infernale. Abbiamo dato un po’ di acqua a tutti quelli che potevamo “rifornire”, ma non ce la facevano proprio. In quel caso, vedi, io penso che gli organizzatori abbiano esagerato».

Noi italiani alla Dakar siamo veramente pochi, sparsi, e quasi tutti da soli. Sarebbe bello riunirci e cercare di mettere sù qualcosa come una Squadra Italia. Tutti riuniti sotto una grande bandiera, con una struttura comune


Da una parte sembra che sia difficile stabilire a priori l’esatta entità dell’impegno da proporre. Dall’altra il solo fatto di allungare le tappe di 50-100 chilometri era già un segnale chiaro, no?
«Già, però quel passaggio a 4.300 metri con i medici appostati lì con le bombole dell’ossigeno era certamente un passaggio che sapevano essere difficile prima ancora di partire. Vabbè, i Campioni passano e ci mettono il tempo giusto, arrivano al bivacco con la luce e si mettono a riposare. Ma i privati, gli amatori? Quelli erano ancora in giro con un inferno di dunette davanti a loro. In fondo la Dakar è una gara che ha negli amatori la spina dorsale della partecipazione. Io ho fatto anche le Dakar in moto, e ti posso dire che questa, per me, è stata la Dakar più dura di sempre. È una cosa che abbiamo limpidamente chiara nella mente. Dentro l’abitacolo avevamo 75 gradi, siamo scesi per cambiare una ruota e abbiamo impiegato un’ora per svitare quattro bulloni!».

Quindi, questa volta basta? Mantieni finalmente la promessa e non ti rivedo più?
«Certamente. Ah, senti, pensavo una cosa. Noi italiani alla Dakar siamo veramente pochi, sparsi, e quasi tutti da soli. Che ne dici se cerchiamo di organizzare una “pizzata” per riunire tutti quelli interessati a fare la Dakar, anche quelli che l’hanno già fatta e che vorrebbero ripetere l’esperienza? Ci ritroviamo tutti assieme e cerchiamo di mettere sù qualcosa come una Squadra Italia. Tutti riuniti sotto una grande bandiera, con una struttura comune, un bivacco per tutti, programmi, i camion sei per sei uno per le moto e uno per le auto, tecnici e servizi, anche quelle opzioni che possono interessare tutti e che singolarmente nessuno può mettere insieme. Tutti insieme, tutti i motociclisti prima di tutto, e poi anche quelli che corrono in macchina. L’unione fa la forza, no? Che ne dici, ci pensiamo? Ti sembra una buona idea?».

Dico che è una grandissima idea. E molto bella. Addirittura, mi pare il caso di non perdere tempo e di sottoporla direttamente ai nostri lettori appassionati. Che ne dite?

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