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Ha’Il, Arabia Saudita, 9 Gennaio 2020. Prima li pieghiamo, poi li spezziamo. Questa è l’idea della Dakar, da sempre. Portare tutti a un limite psico-fisico sconosciuto, e poi dar loro la mazzata finale. In origine “l’esecuzione” era una sorta di delitto morale “colposo”, perché le circostanze fatali dipendevano in gran parte da fattori allora in parte o del tutto sconosciuti. La sola geografia, la morfologia dei terreni, a volte praticamente inesplorati, un certo modo tra il disinvolto e l’avventuroso di lanciare i concorrenti allo sbaraglio, una sorta di “liberatoria” dipendente dal fatto che nessuna esperienza era registrata, nessun data base implementato, insomma nessuno poteva essere ritenuto responsabile. C’era anche una certa indulgenza per quanto riguarda rischio e sicurezza, diciamocelo. Era l’Avventura allo stato puro, e di conseguenza l’assioma del destino dei partecipanti al Rally: “C’est le Dakar!” – “È la Dakar!”
Un altro elemento incommensurabilmente incerto era che ai primi Rally africani e alle prime Dakar si partecipava con dei mezzi inadatti, nella maggior parte improbabili, quando non del tutto impropri. Macchine e moto stradali, appena adattate come quando si va a caccia o a pescare, ruote di scorta come massimo, ammortizzatori e rinforzi ridicoli, trousse di attrezzi che stavano in una sacca, nel marsupio o in quei borselli di cuoio così evocativi di un’epoca leggendaria. Non era pressapochismo. Non c’erano preparatori, sono nati dopo e di conseguenza, non c’erano mezzi realmente adatti. Anche le “jeep” degli albori erano del tutto inadeguate, troppo lente. Le prime BJ in qualche modo e per l’epoca performanti sono arrivate come mezzi di assistenza, non di corsa, e facevano fatica anche in quel ruolo. Bisognava rischiare con dei mezzi più fragili ma un pelo più rapidi. L’equazione era resistenza, affidabilità, velocità. La Dakar non aspettava nessuno, in un giorno potevi essere fuori per un incidente, per un guasto, spesso per un irrecuperabile fuori tempo massimo.
Oggi guardarsi indietro vuol dire non crederci. Non riuscire ad immaginare l’inferno di quegli ultimi anni settanta e dei primi ottanta.
Era partito un missile incredibile, tuttavia. Il fascino di quell’Avventura aveva scatenato una corsa infernale all’adeguamento. Il richiamo della sfida, ma anche della visibilità, della fama oltre ogni limite, conosciuto e soprattutto ignoto, misterioso, è stata una vera e propria bomba di progresso. Moto, Macchine e Camion sono diventate ben presto delle Formula 1 del Deserto. E oggi si continua su questa strada, solo a tratti interrotta da ripensamenti, regolamenti calmieranti, necessità infinita di sicurezza. Pensate solo che Fabbriche, Marche, cordate industriali di altri settori, si son lanciati nell’impresa di progettare e costruire mezzi speciali, appositamente pensati per la Dakar, al pari della Formula 1, del WRC, della MotoGP.
A volte, spesso, gli stessi attori dell’asfalto trasferiti su un palcoscenico tecnico pieno di polvere, di vento, di tempeste di sabbia. Una KTM, una Honda, una Peugeot, sono moto e machine progettate e costruite direttamente dai reparti corsa della Fabbrica con lo scopo di primeggiare in una Gara che va in scena una volta l’anno. Vincere o perdere, prendere o lasciare. Ma anche altre Macchine sono opere meccaniche per la Dakar. Mini, Toyota, Yamaha. Le ultime loro creature sono nate nella discrezione di atelier privati, ma prima o poi, per fare il grande salto, hanno avuto bisogno del contributo del Marchio che portano sul cofano o sul serbatoio. Un contributo tecnico, più spesso economico per poter andare avanti senza badare a spese. Lesinare o risparmiare per una corsa l’anno, vincere o perdere, non è una buona politica. Così anche i dettagli diventano enormemente costosi. È un criterio di selezione feroce, ma è così.
Ho perso il filo, mi sono lasciato trasportare dall’intensità intrinseca alla Corsa. Parlavamo del massacro programmato. Ecco, ripartiamo.
Volevo dire che oggi non è più avventura ambientata nell’ignoto geografico e tecnico. Da questo punto di vista ora è tutto più o meno sotto controllo.
Oggi un ingegnere, un tecnico, un organizzatore che lavora sulla Dakar è un abile programmatore. Sa dov’è il limite del materiale, della geometria, del consumo e della rottura. Quasi. Così è l’organizzatore. Perché sa qual è il limite del “Dakariano” e riesce a confezionargli un’Avventura su misura, cioè quasi sempre oltre misura. Sa proporre una tappa apparentemente facile ma che ti stronca le gambe, così il giorno dopo cadi su un ostacolo che ti sembrava niente di ché. L’organizzatore ha sotto controllo la lunghezza della Tappa in funzione della luce del giorno, la sua durezza in rapporto con l‘acido lattico non smaltito in poche ore di riposo. Il freddo che troverai e che sarai in grado di sopportare. Non può controllare ancora troppo bene un improvviso cambio meteo. Ecco, questo diventa il confine tra il limite e l’impossibile, spesso. A volte si annulla una tappa, ma è sempre una vergogna, o si taglia un controllo, un waypoint. Poi sta a te, se ce la fai stai dentro, altrimenti sei out!
No, un momento, anche questo è cambiato. Anzi. Qualcosa è cambiato in modo sostanziale. Una volta eri fuori. OUT. Oggi c’è Dakar Experience. È un modo indulgente di tenerti in corsa, meglio dire in pista e al bivacco. Sei fuori dalla corsa per la vittoria, ma non dal contesto. Continui, ti giochi l’onore e la gloria della Speciale, provi nuove soluzioni o l’equipaggio e l’equipaggiamento. Fai “esperienza”, insomma, e non butti tutti i soldi del biglietto, passi dal palco reale al loggione. Un po’ meno Dakar Original, un po’ più isola dei famosi.
Aggiornamenti. SSV. Ecco come succede che Cyril Despres e Mike Horn, due eroi della Dakar e dell’Avventura arrivati all’ultimo tuffo con il progetto Redbull degli SSV OT3, un giorno si ritirano con il motore rotto, il terzo, un altro si riposano e fanno sistemare la macchinina, il quarto, e un ultimo, il quinto, si permettono di tornare in pista e di mettere tutti in fila vincendo la Speciale davanti ai sacrificati della categoria che intanto vengono frullati dal Rally. Isola dei Famosi.
SSV dall’inferno. Giornataccia per Guthrie, Lopez e lo sfortunato a oltranza Farres. Ancora un cambio di guardia in testa. È la volta del russo Sergei Kariakin che bussa alle porte della 42ma Dakar dei piccoli, ringhiosi 4 ruote. Currie torna al secondo posto, Lopez scende al terzo, Guthrie addirittura al sesto, proprio dall’altare alla polvere. Borsoi e Pelloni sono al 23° posto, davvero bravi, Camelia è 32ma e Cinotto chiude la fila. Bravi tutti, l’SSV è diventato professionale e esigente.
Quad. Ecco un altro vincitore, Romain Dutu, ma la Generale rimane invariata, i cileni Casale e Enrico nell’ordine, Sonik quarto alle spalle di Vitse.
Camion. Nuova tripletta degli Elefanti del Deserto russi. I Kamaz di Sotnikov, Shibalov e Karginov. Karginov sempre primo ora con un vantaggio di quasi un quarto d’ora. Bellina, Cabini e Calabria compatti.
E Alonso? bene. Il duo super iberico di Toyota Gazoo Racing funziona. Settimi a dodici minuti da Sainz, Fernando e Marc se la stanno cavando davvero egregiamente, soprattutto adesso che hanno regolato la valvola del gas. Bello.
E più bello ancora rivedere al bivacco Hubert Auriol. Pioniere, vincitore in Moto, vincitore in Auto, Direttore Sportivo della Dakar. Più che un’icona, Togli Hubert dalla foto, e probabilmente non esisterebbe più Dakar!
Ah dimenticavo, il gioco del limite. Della mannaia della Dakar. Quinta tappa difficile, soprattutto faticosa con quei cento chilometri d’inferno di pietre alla fine. Ecco un altro passetto verso il limite generale. C’è da aspettarsi una sesta tappa, nel miraggio della giornata di riposo, d’inferno!
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