Il Bar-Bolla della Dakar. Scusi, il Ristorante? E gli Hotel?

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Anche il bivacco-CoVoD-19 è cambiato molto, esasperando una tendenza ormai irrimediabilmente lontana dalle origini. E così le infrastrutture cavalcano i tempi. Ma ci son dei vantaggi…
4 gennaio 2021

Wadi Ad-Dawasir, Arabia Saudita, 4 Gennaio. Al Bar-Bolla della Dakar si discute, si beve, si consumano teorie e analcolici, si tirano giù come noccioline giudizi e sentenze. È la libera espressione del bar. Ma la Dakar non è solo Bar… c’è anche il bivacco. Il Bivacco. C’è stato un tempo che era un agglomerato disordinato e polveroso di mezzi, tende, camion di servizio, turisti, locali e… Concorrenti.

Il riferimento centrale, il faro, era il Camion AfricaTours sul quale viaggiavano la cucine da campo, dal quale si servivano i pasti nelle gamelle, e sulla sponda del quale Thierry Sabine urlava il suo briefing e le sue maledizioni agli scellerati. C’è stato anche un tempo in cui il bivacco si materializzava in mezzo alle dune, una fila di tende berbere sulla sabbia. La conformazione a ferro di cavallo è venuta dopo, tre quarti di giro di tende che creavano un ridosso dal vento di sabbia e in mezzo al quale la sera si accendeva il grande fuoco della Dakar.

Ancora tendoni, a volte sembravano lenzuola ad asciugare basse sul deserto, tanto basse che un giorno sventolando sulla griglia della cena il bivacco si incendiò. Cuscini e tappeti per terra sono venuti dopo, e quello era il massimo. Era l’unico punto di riposo e di ombra al termine di quelle tappe-inferno capaci di intrappolare i camion di assistenza fino all’alba.

Ufficiali, privati, dei dello sport e predatori naif dell’avventura vi trovavano riparo dal bombardamento del sole. Si mangiava sulle gambe incrociate scambiandoci parmigiano e san daniele, si passavano le nostre bottiglie portate da casa, si raccontava fino a tardi, si dormiva insieme, e se di notte scendeva il gelo ci si sistemava stretti gli uni agli altri come un allevamento di sacchi a pelo. Quando le notti erano tiepide e stellate, prendevi il sacco e te ne andavi a sognare su una duna, lontano dalla musica dei generatori. Nostalgia.

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Poi sono venuti i bivacchi negli aeroporti, esclusivi e vigilati, e poi il Sud America, con i suoi campeggi-lager circondati di filo spinato e guardie, la terra spianata dalle macchine, impolverati come l’inferno e strutturati a scacchiera. Tensostrutture sempre più grandi invece dei tendoni, camper al posto delle tende. Pochissima coreografia, molta organizzazione, sezioni e settori funzionali sempre meglio attrezzati.

Un giorno, in Bolivia, venne giù un diluvio, fu l’assalto ai pochi hotel, molti dormirono per strada o nei furgoni, e per raggiungere gli “uffici” del bivacco nel fango ci volevano gli stivaloni da pesca. In Arabia Saudita l’evoluzione del bivacco ha portato grandi benefici organizzativi e sempre meno atmosfera, ma succede anche che, in una situazione critica come quella della necessità di infilare la Dakar in una “bolla”, il bivacco così strutturato risulta particolarmente adatto e perfettamente funzionale all’emergenza.

Indimenticabile Massimo Montebelli
Indimenticabile Massimo Montebelli

Oggi, Dakar Arabia Saudita, il bivacco assomiglia vagamente a un… ospedale da campo, tanto è rigore e precisione, attenzione che trasuda dall’organizzazione di ogni infrastruttura. In Sud America entravi solo se “fittavi” con la lettura di uno scanner e c’erano ospiti. Ora non se ne parla nemmeno, il Bivacco è blindato, è quel “tunnel” anti CoViD di cui si parla dall’inizio. Purtroppo è giusto così.

La benzina era un camion in una pozza di carburante sulla sabbia, o fusti da 200 litri che rotolavano verso gli angoli ormai bui del bivacco. Se arrivavi con una sigaretta accesa Trunkenpoltz ti dava una sberla e poi ti chiedeva scusa e tirava fuori un bicchierino. Se vai a fare benzina oggi, a parte che non vedi un manager per giorni, c’è una pompa gialla sotto un gazebo, inservienti gentili e spazio. Manca solo che ti puliscano visiera o parabrezza. Certe aeree di servizio della nostra decadente civiltà si sognano tanta pulizia e ordine.

La maggiore, drastica trasformazione l’ha subita il “ristorante”. Lì è sparito ogni segno di atmosfera. Ma è una necessità. Si fa la fila distanziati, dopo essersi igienizzati. Va detto che, in tempi non sospetti, la Dakar aveva già previsto il sistema di igienizzazione personale, qui l’ha solo perfezionato. Non si tocca più il cibo, e neanche gli inservienti con i quali volavano pacche sulle spalle, non sono più banchi di legno ma piani d’acciaio inossidabile tirati a specchio. Il cibo è preservato e servito come si fa oggi con il sistema dell’asporto. Vaschette plastiche, pellicola, sacchetti e lattine sigillati.

Una volta attorno a un tavolaccio ci potevano essere 20 persone, il doppio di bottiglie sul tavolo, i brindisi si susseguivano a mitraglia e c’era sempre un ufficiale che stava al gioco quando gli davi del cadetto. Oggi si ritira il sacchetto e ci si dirige nei “separé” del tendone, vere e proprie stanzette asettiche con pochi tavoli-panca destinati a un massimo di tre persone. Si mangia e ci si leva di torno per far posto ad altri. È l’era del CoViD-19. È il prezzo (un altro) per poter fare la Dakar!

Questo è il “Ristorante”. E gli hotel? Scordateveli. È la riscossa del bivacco, tutti dentro, tutti dentro i loro motorhome. È anche la riscossa delle tende. Ne sono fiorite molte, quest’anno, certamente molte più che in Perù, Argentina o Cile.

 

© Immagini: “Nani” Roma Media, BRX, Red Bull Content Pool, X-raid, Toyota Gazoo Racing, ASO, KTM, Honda, Rally Zone, Francesca Gasperi

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