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Somewhere, some days after. 7. 15° 45′ 0″ S, 69° 25′ 0″ W. Titicaca. Perù. Bolivia. Il Mare sulle Ande. Non è vero che l’America Latina ha due Oceani, ai due lati. Ce n’era un terzo, affascinante e insospettato, fino a quando qualcuno si è accorto che non era un mare ma un lago. Il Lago Titicaca. Sta al centro del Continente, al centro della regione andina a oltre 3.800 metri sul livello del mare. È il lago navigabile più alto del Pianeta.
La Dakar ha visitato il Titicaca di passaggio, passando dal confine tra Perù e Bolivia. L’unica sosta in visita, piuttosto formale è stata quella di Puno durante l’edizione 2018. Una visita di cortesia rapida, attraverso la festa commovente che la città aveva dedicato alla “Carovana Multicolor”. Poi il lungo trasferimento lungo il Lago, circa 300 chilometri con il passaggio del confine a Desaguadero, per scendere verso la Bolivia, risalire verso El Alto e scendere di nuovo a La Paz.
Sarebbe stato bello organizzare la giornata di riposo a Puno, e dare ai presenti l’occasione di soffermarsi, di visitare le Isole degli Uros e ritornare così su un capitolo affascinante e originale della storia della Civiltà. Naturalmente, alla Dakar, il cronometro sorveglia il Pilota ed è il bastian contrario del Viaggiatore. Per fortuna Mr. Franco e io, non essendo né Piloti né presunti tali, quel cronometro non l’abbiamo mai acceso, e così abbiamo potuto ascoltare, seguire e rispettare, invece, i richiami del Viaggio. Ecco come è successo che il Titicaca l’abbiamo visitato due volte, rapidamente ma abbastanza a fondo da registrare quell’esperienza che non ti lascia più.
La prima volta era stata una vera e propria “fuga” dalla giornata di Riposo di La Paz. La “missione” era guidata, come tutte le altre che hanno avuto per obiettivo l’”insospettabile” Bolivia, quella che non ti aspetti, da Kenny e Yannick Wende, padre e figlio, amici di Mr. Franco, fratelli. Ci arrampicammo sulle Ande, oltrepassammo l’inquietante El Alto e scendemmo fino alle rive boliviane del Lago, in corrispondenza dello “stretto di Tiquina, il braccio d’acqua che separa virtualmente i due bacini, il Major e il Menor, il Maggiore tre volte più grande e oltre cinque più profondo del Minore. Fu un viaggio quasi simbolico, breve e faticosissimo, eppure significativo. Andammo a bagnarci nelle acque cristalline del Lago anche se eravamo già zuppi di pioggia e raccogliemmo, in silenzio ciascuno con i propri pensieri, uno di quei rari momenti di… raccoglimento che la solennità dei luoghi di tanto in tanto trasmette come forma inesauribile di energia. La Bolivia è un po’ così, ci sarebbe capitato ancora, a Uyuni, a Las Animas, sul Chacaltaya a Milluni, all’ombra maestosa dei 6.000 del Huayna Potosì.
La seconda è stata un’esperienza più attuale e “ragionata” al culmine dello straordinario viaggio peruviano. Anche più “colorata”, diremmo iconica. Partimmo da Arequipa a notte fonda, un anno dopo, andammo in fuga all’attacco delle Ande via Yura, Crucero Alto, Lagunillas, Juliaca, “staccammo” il gruppone della Dakar e, arrivati a Puno, andammo dritti come fusi all’Imbarcadero sulla piccola Isla Estoves dove ci aspettava una piccola imbarcazione con il motore acceso. Con quella saremmo andati a destinazione. No, non era la fuga da Alcatraz, bensì l’“operazione” perfettamente orchestrata da Roger Valencia per mandarci all’”esilio” di qualche ora sulle Isole degli Uros. Roger Valencia è il Ministro della Cultura del Perù, amico quasi d’infanzia di Mr. Franco, nel senso che erano già gli eterni, appassionati bambini quando giocavano insieme a fare dell’Incas di Acerbis Adventures il più bel Rally del Mondo.
Non stavamo scappando, naturalmente, ma avevamo poco tempo, e poi eravamo impazienti. La nostra mèta, le Isole Galleggianti degli Uros, era lì, a un’ora di navigazione, eppure non accennavamo a calare il ritmo che ci aveva accompagnato da Arequipa lungo il magnifico trasferimento andino.
Esperienza “colorata”, si diceva, perché molte cose sono cambiate nel corso della Storia. La strana etnia degli abitanti di quell’angolo “umido” della Terra è l’originale popolazione che non parla Quechua, non parla Aymara, che viene da lontano, si dice addirittura dalla Polinesia e dal Perù “Pacifico” in fuga dagli Inca, che aveva scelto di stabilirsi sulle rive del Lago per vivere di pesca e di caccia e che, ancora non sicuri, si era spostata su quell’artificio di terra… mobile per dar vita a una comunità rimasta sostanzialmente isolata e finalmente in pace. È pur vero, tuttavia, che il modo di essere, e soprattutto di vivere degli Uros, ha attirato quella curiosità caratteristica delle circostanze misteriose e leggendarie.
Gli Uros abitano tutt’ora le isole di totora, in case di totora e si spostano tra una “zattera” e l’altra o verso il “continente” su imbarcazioni di totora. La totora è una cannella lacustre, del tipo che si vede anche da noi sui nostri laghi, in una versione che è caratteristica delle rive del Titicaca. Attorno alle realizzazioni degli Uros è nata la grande avventura di un Popolo, diventata leggenda nel mito del Kontiki e del suo voler dimostrare il contrario, ovvero che le isole polinesiane furono raggiunte e abitate dai sudamericani per primi.
Storia, mito, leggenda, tutto copia perfettamente la forma del richiamo globale, del turismo, e con i grandi spostamenti di massa che hanno cambiato il viaggio in qualcosa di più commerciale, anche le Isole Galleggianti e i loro abitanti si sono dovuto adattare. Le piccole imbarcazioni incerte sono diventate vascelli colorati, una via di mezzo tra le imbarcazioni romane e egiziane, le case si sono arricchite di forme architettoniche e colorate, gli abitanti stessi ora “interpretano” colorando con l’esperienza la parte che hanno ereditato dal patrimonio ancestrale. La totora è sempre la materia prima che modella lo scenario delle Isole, ma magari adesso è aiutata nella sua funzione principale da bottiglie di plastica che contribuiscono in maniere determinante ad allungare il processo di decomposizione e di rinnovo delle strutture. La scena è e resta affascinante, l’atmosfera ancora originale, e poi non è colpa degli Uros se i tempi sono cambiati, e invece di doversi difendere dagli Incas oggi devono fare attenzione alle “orde” di visitatori che pure animano la loro nuova vita. Puno, le Isole Galleggianti, gli Uros, tutto è rimasto fedele al concetto.
Come tutto il Perù, bellissimo e per questo preso d’assalto dalla passione del viaggiatore, che si vede obbligato a cambiare molte cose per non perdere, anzi recuperare, valorizzare il proprio immisurabile patrimonio di attrattive. È interessante e istruttivo che il Paese lo faccia con l’onestà intellettuale di chi sente di dover mediare tra la sua Storia e quella certa “aggressività” dei nuovi conquistatori. Protegge le sue bellezze, e allo stesso tempo sa renderle coerentemente produttive.
Foto: Piero Batini