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Dammam, Arabia Saudita, 3 Febbraio. Farsi ribollire il sangue, nel bene e nel male durante e subito dopo, non porta molta acqua al mulino di un giudizio obiettivo. Si è troppo caldi per essere lucidi a sufficienza. Meglio lasciar sedimentare, poiché va da sé che il pensiero resta lì a dare continuità alle riflessioni. Alla fine della 45ma edizione il giudizio lapidario è: bella la corsa delle Moto, brutta quella delle Auto. Oggi è la volta dei pesi, ossia quanto, come e perché bella o brutta. Sapevamo che ci saremmo tornati sopra.
La Dakar delle Auto non è stata un granché. Anzi, a dirla tutta, dal punto di vista delle dinamiche agonistiche è stata bruttina. Anzi, brutta. Due giorni e la corsa era già sparita, finita. Film già visto, è andato in scena il bis plus di Nasser Al Attiyah e Mathieu Baumel, dal terzo giorno in poi sempre più invulnerabili al comando. Talmente al comando che a tenere in vita un minimo di tensione c’è stata solo l’idea del sempre possibile imprevisto. Due le ragioni del “fallimento” della corsa delle Auto: la terribile seconda tappa di pietre e, se mi è concesso lanciare una… pietra, le manie di ingerenza e Balance of Power della FIA. I due ingredienti hanno fatto saltare il banco congelando il potenziale di fuoco poi visto, inutilmente e quindi con ancora maggiore dispiacere, nelle ormai isolate vicende di Loeb, Sainz, Chicherit, Peterhansel.
Che Al Attiyah e le Toyota sarebbero andati forte era pacifico. Che Audi e BRX-Prodrive potevano andare altrettanto forte lo si è visto quando era troppo tardi. Il potenziale di Audi aveva fatto paura ancor prima di partire, ed ecco i bastoni fra le ruote della FIA con il cambio di regolamento sul peso, bastoni poi tolti in corso di… corsa con il regalo, in nome del BoP, di quegli 8 kW (se non ricordo male) che hanno fatto imbestialire Al Attiyah e “costretto” il governo di Ginevra a richiamarlo all’ordine. Musica diversa, ma equivalente, per le Prodrive. Non solo Loeb, anche Chicherit e Terranova hanno dimostrato che la macchina è competitiva.
A cose fatte, vuol dire con Al Attiyah in una botte di ferro, Loeb ha vinto sette volte (è la metà della Speciali disputate), dimostrando una volta di più di saper andare fortissimo ovunque e sempre, e con qualsiasi mezzo gli si metta tra le mani. Le Audi hanno vinto poco, anzi una volta sola, subito il primo giorno con Sainz, poi son state travolte dalla disdetta. Fuori Peterhansel e fuori anche Sainz, per ciascuna delle due RS Q e-tron… due vertebre fratturate. Prima Eduard Boulanger, navigatore di “Peter”, poi Carlos Sainz. Mi chiedo se vuol dire qualcosa, mi rispondo che le cellule di sicurezza quelle auto, in quell’assetto da guerra, sono ormai ben più robuste del fisico degli Equipaggi, e le vetture troppo rigide, al punto da rappresentare un nuovo rischio.
Ma c’è una ragione anche per questo. Quindi mi rispondo anche che, visti i limiti di velocità massima e il Bilanciamento della Potenza, le auto devono ormai andare forte, più forte che possono, dove invece farebbero meglio ad andare più piano. Un controsenso bestiale che spiega tante cose già a partire dalla pluri-imputata seconda tappa. Viste le troppe forature in giro e consapevole della competitività delle Toyota, Al Attiyah ha rallentato, mentre gli altri sono andati in overdose di forature e hanno, del tutto o in parte, compromesso la propria gara.
Al contrario, è stata molto bella, incandescente e memorabile la corsa degli SSV, in tutte le loro forme. T3 o T4 che fossero, ogni categoria ha mandato in scena azione, battaglie, incertezza. Non ci sarebbe da stupirsi se in un prossimo futuro le 4 ruote fossero rappresentate alla Dakar da un’esclusività di Side-by-Side. In T3 figlio e padre Goczal sul podio finale, Eryk primo e Marek terzo, in mezzo il povero Rokas Baciuska che fino all’ultimo ci aveva creduto, e a ragione. In T4 un manipolo di formidabili protagonisti a darsi il cambio in testa a una corsa mai ovvia. Ha vinto Austin Jones, ma potevano vincere Seth Quintero, Giullaume de Mevius, Francisco “Chaleco” Lopez, Cristina Gutierrez. Come detto in altro pensiero, ha vinto comunque e sempre South Racing, il Team-Azienda che ha cambiato il volto della Corsa delle “Macchinine”, e probabilmente anche la storia della Dakar delle Auto.
Bello. Gli italiani. Più di 70 italiani in gara. Siamo stati la quarta potenza mondiale alla Dakar, dopo Francia, Olanda e vicinissimi alla Spagna. È senz’altro un buon dato, soprattutto visto come trend. Gli ultimi anni hanno visto crescere l’interesse degli italiani per la Dakar. Non abbiamo primestelle a trainare questa tendenza (anche se l’appeal della partecipazione di Danilo Petrucci lo scorso anno è stato eccezionale) e non è cambiato il livello di empatia dell’organizzatore francese, tuttora ritenuto piuttosto… francese. Uno dei meriti della crescita italiana va ricercato nel bel lavoro fatto da ASO in Italia, e questo conduce direttamente all’opera eccellente di Edo Mossi, molto più che un “funzionario”. La passione genuina dello Sport Coordinator della Dakar non ha lasciato indifferenti e ha contribuito a ricreare quel movente di affezione che mancava da tempo. Non si capisce perché uno come David Castera, il Direttore della Dakar, che è pure è persona ultra competente e appassionata, non riesca a creare su più vasta scala quel “legame” con il popolo della Dakar che è venuto così naturale a Mossi.
Bello. Gli italiani. Bis. Abbiamo vissuto e ammirato la leggenda di Zack, Iader e Frankie. Non ci siamo accorti troppo di altri, ci dispiace. Abbiamo rivissuto il piccolo dramma di Eufrasio Anghileri ma non abbiamo riconosciuto la quieta inossidabilità di Lorenzo Fanottoli. Ci siamo allarmati per l’incidente di Tommaso Montanari ma non ci siamo accorti di Ottavio Missoni e del suo intervento di salvataggio a un passo dal dramma. Franco Picco è stato ancora una volta il testimone di una Storia. Altra azione, altra emozione. Altro capitolo di un romanzo incredibile. Bene le 3 Kove cinesi, tutte al traguardo, non mi sono piaciuti gli errori, prima, durante e dopo, di Fantic, ma mi è piaciuto moltissimo come Picco ha saputo portare quella bandiera tra mille, evidenti difficoltà. E abbiamo finalmente provato a immaginare che da qui a non molto un italiano torni a far battere forte il cuore: Paolo Lucci. Tra i belli delle auto, poca roba in verità. Belli Laia Sanz e Maurizio Gerini, forse Laia da sempre e ora di più da quando corre in compagnia di “Gerry”. Aggiungerei la grande forza di volontà di Rebecca Busi, purtroppo non sufficiente per far scavalcare alla debuttante tutte le difficoltà, e ci metterei anche il salto in avanti, non premiato, del Camion di ItalTrans, Bellina, Gotti, Minelli, probabilmente “spaesato” in quel nuovo ruolo di effettiva, ma inaspettata, competitività.
Parliamo ora di Dakar, del Rally allo stato attuale denunciato dalla 45ma edizione. Ancora una volta un grande show organizzativo e un potenziale ASO-Arabia Saudita immenso. I 170 ettari del Sea Camp, il bivacco-città anti attentato, ne sono una prova, la maestria e la disinvoltura nel cambiare le carte della mano in funzione del deterioramento delle condizioni meteo, sono un’altra prova. Le condizioni sono state a dir poco infernali, mai vista tanta acqua e freddo in posti del genere, e gli organizzatori hanno cambiato bivacchi, percorsi e programmi come se avessero sempre a disposizione non solo un piano B bensì anche un piano C, un D e così via.
Non è stato bello, dal punto di vista degli organizzatori, il BoD, il Balance of Difficulties. A una prima parte di Gara molto difficile, in tutti i sensi, ha fatto riscontro una seconda parte quasi insignificante, sempre dal punto di vista delle difficoltà. Lo spauracchio dell’Empty Quarter è stato solo uno spaventapasseri, e per quelli bravi una stupenda passeggiata. Non solo, l’Empty Quarter non ha cambiato nulla di quello che era già maturato con la prima parte del Rally. Che vuol dire? Che, sempre dovendo tener presente la variabile meteo, che è materia dei se e dei ma, gli organizzatori hanno avuto paura a mostrare i denti di quel Deserto, o forse volevano solo farne un test per le edizioni a venire.
L’atmosfera purtroppo è scarsa. C’è, ma scordiamoci quella delle origini e anche degli anni d’oro. Forse non è colpa di nessuno, la Dakar troppo grande non può stare tutta sotto una tenda o dentro un sacco a pelo. L’atmosfera della Dakar sarebbe quella della tappa Marathon, tutti insieme a condividere la semplicità di un bivacco nomade sotto le stelle. È chiaro che non ci si può inventare un presepe con 3.000 persone tutte in corsa, ma è vero che, Sea Camp a parte con la sua triplice funzione, tensostrutture, tendoni industriali, infrastrutture da pozzo petrolifero e “arredamento urbano” distruggono quella magia cui era fortemente attaccato l’immaginario. Soprattutto avvilisce parecchio la presenza di quei 100 motorhome con cui si è dato una mazzata alla democrazia della Dakar e creato altrettante isole di… isolamento. 100 camper sono un reddito, d’accordo, ma visto che lo Sponsor ci mette di tutto e di più, forse… Purtroppo, per molti aspetti, quel che è stato non può più essere, questo lo abbiamo digerito, ma non bisogna smettere di crederlo possibile.
Magnifica Arabia Saudita. Il Rally è ancora molto isolato dal tessuto sociale del Regno. La gente qui la Dakar non la conosce, la ignora, non è invitata. La corsa vive in una specie di lungo corridoio e attraversa il Paese senza essere notata. Spunta in superficie nella giornata di riposo di Riyadh e a Dammam per l’epilogo. Probabilmente ci vuole tempo, ma sicuramente anche un aiutino. In Arabia Saudita non c’è la tradizione lampo creata dal suo nascere in Francia e nell’attraversamento dell’Europa gelata, e tanto meno lo stupendo delirio di passione preesistente su cui è esplosa la Dakar in Sud America. La Dakar in Arabia Saudita è un bello spettacolo in un teatro vuoto. Meglio ancora, in uno studio televisivo, vuoto, anche se poi in “occidente” lo spettacolo entra in tutte le case. E con esso lo scenario mozzafiato.
Lo spettacolo del Deserto Arabo davvero toglie il fiato, ferma il respiro. Sotto questo aspetto la Dakar non delude, anzi. È tornata la grandiosità della solitudine nell’infinito che aveva segnato l’epopea delle origini africane. Quel senso di paura dell’io contro qualcosa di maestoso che può anche non essere solo bello. Le immagini foto e televisive sono mozzafiato e disegnano lo spettacolo senza fine del Pilota solitario alle prese con un’immensità dura e affascinante. L’oceano di dune, le sue onde cortissime a ripetizione o altissime all’improvviso, ferma il cuore sull’avventura dello sfidante solitario. È spettacolo di immagine purissima, di cuore in gola, di vertigine orizzontale.
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