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11- Uyuni-Tupiza, 14 Gennaio. Mettersi Uyuni alle spalle lascia in bocca due sapori. Il dolce della partenza verso nuovi obiettivi (lasciandosi indietro, volentieri, anche una certa incuria e un senso di abbandono) e l’amaro di non essere riusciti, ancora una volta, ad attraversare il Salar da una sponda all’altra. Un po’ meno amaro, in questo caso, perché con l’acqua alle ginocchia sarebbe stato più facile andare a cercarsi dei guai che incontrare una sirena che prende il sole sulle rive dell’Isola del Pescado. Non c’è molto tempo per rammaricarsi, comunque, perché a distrarci e catturare la nostra muova attenzione ci pensano la strada e un nuovo tipo di scenario, che arriva inaspettato. La strada si muove, adesso, sui tre assi, serpeggia dolcemente sui due orizzontali, sale e scende, sempre dolcemente, tra basse colline, valli e canyon poco profondi sull’asse verticale. Compare anche la vegetazione. Dopo due terzi di altopiano boliviano sostanzialmente desertico, ci sembra di aver attraversato il confine con la Svizzera o con l’Austria, o di essere in vacanza nella campagna toscana. Un altro pensiero, alle “esperienze” del passato. Abbiamo già fatto per ben tre volte la Uyuni-Tupiza, tutte le volte risalendo verso Ticatica e Porco fino a Potosì, e quindi attraversando le grigie rovine dell’ex teatro dell’argento boliviano gentilmente conquistato per gli spagnoli dalle armate del rey. Operazione talmente gradita da durare per i secoli XV° e XVI° e da cambiare il nome da “conquista” in “pacificazione”. In totale, tornando alle nostre peripezie boliviane, circa cinquecento chilometri ogni volta, aggravati dalle curve, dai demenziali limiti di velocità ASO-boliviani e dal fatto che eravamo partiti dalle rive del Salar, da Colchani o dal Nord di Tahua, sempre all’ultimo minuto a tramonto ormai archiviato. A consigliarci la “panoramica” era sempre stata l’Organizzazione della Dakar, “preferendola” alla Challapata-Potosì, 700 km, e “consigliandola” di forza nei tracciati registrati del maledettissimo Tripy, la scatola gialla con cui ASO “suggerisce”, condiziona e controlla i nostri movimenti. Per rafforzare l’imposizione, ogni volta erano annunciate esondazioni, frane e trappole di vario genere sulla direttissima Uyuni-Tupiza. Potete quindi immaginare lo stupore e il velato disappunto di Mr. Franco e mio, quando si viene a scoprire che, a parte qualche centinaio di metri di lavori di completamento, quella direttissima è nuova, larga, ben segnalata e scorrevole, perfettamente calata nel contesto paesaggistico di cui diventa monitor preferenziale per il viaggiatore. Ancora una volta la famosa, convincente “trasparenza” di ASO e della Dakar in genere.
Il viaggio diventa più piacevole di chilometro in chilometro, forse anche perché l’altitudine va diminuendo e si torna a respirare, e perché questa volta abbiamo una mèta sicura e confortevole, come un appuntamento per una riunione di famiglia.
Comunque, il viaggio diventa più piacevole di chilometro in chilometro, forse anche perché l’altitudine va diminuendo e si torna a respirare, e perché questa volta abbiamo una mèta sicura e confortevole, come un appuntamento per una riunione di famiglia. Il tempo peggiora, ma i chilometri volano e finalmente ci distendiamo un poco, abbandonando la fretta che ci perseguita praticamente dall’inizio del viaggio. Veniamo a sapere che la Tappa, che è la seconda frazione della Marathon iniziata a La Paz, finirà nella fangaia del bivacco di Tupiza. Più tardi arriviamo, pensiamo, e meglio è.
Il Rally è arrivato a un punto pericoloso. Lo stress da Marathon, il cui effetto non era stato calcolato con sufficiente precisione, ha devastato la carovana. Vincono Meo, è la seconda vittoria di tappa del francese pluri-Campione di Enduro, e torna al successo anche Stephane Peterhansel, che ha potuto rimettersi in pista con l’aiuto di Cyril Despres, abile meccanico e “portatore sano” di pezzi di ricambio: la sua Peugeot 3008 DKR Maxi ormai tagliata fuori dalla lotta per il successo, e l’ex Motociclista continua a fare esperienza concentrandosi sul ruolo di “portatore d’acqua”. I vincitori di tappa non coincidono con i leader della Corsa. Peterhansel ha infatti concesso un vantaggio incolmabile a Carlos Sainz, e la Gara della moto è nella mani di Adrien Van Beveren ma resta assai aperta. Barreda sta male e commette degli errori, ma ce la sta mettendo tutta, e il compagno di Squadra Kevin Benavides sembra ora il più diretto avversario di Van Beveren. Il fuoriclasse francese della sabbia, tuttavia, da l’impressione di poter reggere la pressione e le difficoltà. A sparigliare le carte arriva la decisione di annullare la tappa successiva, tra Tupiza e Salta. Dal punto di vista del Rally è una decisione inevitabile e non c’è bisogno di chiedere perché, così evitiamo la solita bufala. La corda è stata tirata troppo, è in procinto di rompersi e così, seguendo il collaudato metodo detto del “ripensamento generoso”, l’organizzazione interrompe le azioni armate, concede una tregua e da una prova di grande generosità e indulgenza. Annullando la Tappa resta il trasferimento e la prospettiva di una giornata sicuramente meno condizionata dal ritmo della Gara.
Il bivacco di Tupiza non esiste più, i mezzi di assistenza sono allineati sull’asfalto della 14 in direzione Nord, chiusa al traffico, a una diecina di chilometri dalla Città, e i concorrenti sono liberi di scegliere tra le due opzioni praticabili. Una è quella di arrangiarsi e fermarsi per la notte, l’altra di ripartire subito, attraversare il confine, entrare in Argentina e “rifugiarsi” a Salta. Fisico e stanchezza permettendo, la seconda opzione è di gran lunga più allettante. Si tratta di mettersi alle spalle altri 500 chilometri, da sottrarre al “debito” con la Dakar, e soprattutto di scendere di oltre 1.600 metri. L’idea di allontanarsi il più possibile e in fretta dalla Bolivia mette le ali.
Andiamo da Jorge, e per prima incontriamo Maria, sua moglie, che ci accoglie come “figlioli prodighi”. Siamo a casa, l’”Hotel”. Jorge Pereira, Maria, e i figli Jorge Junior e Mario, continuano a lavorare sulla loro grande casa che è anche il progetto di vita di un’abitazione-albergo nella quale vivere e accogliere avventori, viaggiatori, amici
Non è così per noi. A parte il fatto che io sto male, Mr. Franco è invece in forma smagliante, siamo per un attimo divisi tra due soluzioni di tipo diverso rispetto a Piloti e Assistenze. Ci sentiamo liberi dalla Dakar, questo sì, e allettati dall’idea di renderci il prima possibile in Argentina, ma allo stesso tempo abbiamo voglia di andare a trovare la famiglia Pereira, che oltre all’”hotel” ci offrono il privilegio di quel particolare gusto di stare in famiglia di cui si parlava prima. Prendiamo, dunque, l’unica decisione possibile: ci fermeremo per la notte con la promessa di ripartire prestissimo, all’alba del giorno successivo. Andiamo da Jorge, e per prima incontriamo Maria, sua moglie, che ci accoglie come “figlioli prodighi”. Siamo a casa, l’”Hotel”. Jorge Pereira, Maria, e i figli Jorge Junior e Mario, continuano a lavorare sulla loro grande casa che è anche il progetto di vita di un’abitazione-albergo nella quale vivere e accogliere avventori, viaggiatori, amici. Per questo l’”Hotel” non è in nessun circuito di ospitalità, non lo si trova in internet o ai banconi delle agenzie di viaggio. Con la scusa che non è ancora pronto, è e resta precisamente quello per cui è stato progettato, un luogo di passaggio e d’incontro, di ospitalità e di amicizia, mai completamente albergo e sempre più la casa dove si arriva per indicazione di un amico, per passaparola. Chiedete a noi, dunque, quando vorrete andare a cercare la presunta tomba di Butch Cassidy nelle vicinanze di Tupiza, e vi diremo dove andare, non fornendovi il nome di un Hotel ma il punto GPS della Casa Pereira.
Serata fantastica, il passaparola tra amici ha avuto per effetto l’arrivo dei componenti del team Gas Gas al completo, Jordi Arilla è un amico e ha avuto le coordinate. Maria ha preparato la pasta fresca con il ragù, e tutti abbiamo una bottiglia di vino che viene da un angolo diverso del Mondo. Chiacchieriamo, parliamo, scherziamo, facciamo progetti da agganciare a quelli che stiamo terminando. Stiamo bene.
Foto: Piero Batini - Nikon