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Uyuni, 8 gennaio 2016. Impressionante. Chiudi la giornata di Dakar e respiri polvere anche per ricordo, la testa che romba al minimo ormai smarmittata, le braccia e il cranio cotti dal sole dei 4.000 che è come un bombardamento laser, numeri, classifiche, penalità e cambi di classifica che turbinano nella mente ormai alla centrifuga di fine giornata, terribile. Poi prima di andar via per il trasferimento del giorno dopo, che deve iniziare il pomeriggio prima altrimenti arrivi la settimana successiva, cambi idea e decidi che devi andare a vedere il Salar di Uyuni. Ma non è così facile. È lì a 30 chilometri dal caos totale della Città omonima, solo che per uscire dalle ragnatele di fettucce, corde tese e transenne, devi spiegare a mille bravi militari le tue intenzioni, e siccome i soldati del servizio d’ordine della Dakar a migliaia vengono da La Paz, di Uyuni i meschini non sanno nulla. Ricominci cento volte, poi, stremato, ti passa la voglia, e rinunci. Sarà per un’altra volta. No. Sarà per questa, volta.
Forzi il blocco, pianti la freccia del GPS a Nord Est e sfondi. Avanti, piano piano, poi sempre più mobile, la morsa si allenta, le vie periferiche lontane dalla festa persistente di Uyuni, orizzonte sgombro, road to Colchani. La strada è libera, e ti distendi finalmente rilassato per qualche mezz’ora almeno. Arrivi e incroci la moltitudine di turisti in fila che sta venendo via. Polvere, polvere a non finire, nuvole di polvere, ma vai nella direzione libera. E finalmente è Salar di Uyuni, il luogo magico della Bolivia che aspettavi di vedere da quindici anni, già dai tempi del viaggio memorabile in compagnia del Dakariano italiano più forte di tutti i tempi, Edi Oioli. Non ci eravamo mai riusciti, nonostante i tre tentativi, a causa del maltempo. Anche lo scorso anno, alla scorsa Dakar, niente da fare. Sempre il maltempo, l’inverno boliviano che arriva puntuale d’estate.
Ti sdrai sulla crosta di sale, per pochi minuti, vai in trance. Ti pare di non pensare a nulla, rapito dalla magia del Salar, ma pensi ad altro, a casa prima di tutto, ti spiace che sei solo. Colpa della Dakar, ma anche merito della Dakar, altrimenti chissà quando avresti potuto riprovare. Bene la Dakar, rigenerati in quattro e quattrotto. A Proposito di Dakar...
È finita da poco la sesta tappa, l’anello di Uyuni. Oltre cinquecento chilometri di Prova Speciale attorno al “ salty flat”. Il Gran Premio del Lago Salato, la Volata del Salar di Uyuni. Strani gli organizzatori della Dakar, lo scorso anno il lago era… allagato, e ci hanno mandato dentro Piloti ed Equipaggi a, soffrire, bestemmiare e, in molti casi, a dare l’addio all’Avventura. Quest’anno tempo perfetto, la crosta salata perfettamente levigata, incitante alla velocità, e Coma & Co. hanno mandato i Concorrenti sul percorso di due anni fa, attorno al lago e non dentro, attraverso il cuore del Salar. Per fortuna è venuta fuori una Speciale stupenda lo stesso, piena di luce, di velocità, di pathos. Sì, perché di tanto in tanto ASO si ricorda che i Dakariani devono riportare a casa qualcosa. Il Salar è una di queste.
Naturalmente non va bene a tutti, e c’è un Pilota che ormai odia il Salar di Uyuni con tutte le sue forze: Joan Barreda. L’anno scorso cremò la sua Honda e dovette rinunciare al combattimento della sua vita. Quest’anno è andata allo stesso modo. È la maledizione. Motore “colato”, come dicono i francesi, la testa, forse. Non importa, a volte basta un filo, un etto di metallo, il KO meccanico non necessità di cattiveria. Ma questa è un po’ cattiva. Ieri dicevamo che nonostante la perseverante vena di follia che anima il Campione spagnolo, due penalità e due primati regalati agli avversari in due giorni è in effetti un po’ troppo, se c’è un Pilota che merita di vincere la Dakar, questo è Joan Barreda. Ma è andata così anche quest’anno. Sul Salar esce allo scoperto la potenza feroce di Toby Price, che strina la sua KTM e dà una cocente lezione a tutti. Per l’australiano, che ha corso nel suo deserto e in quelli americani, il Gran Premio del Salar di Uyuni è un invito a nozze. Anzi, una tentazione. Calmo fino a tre quarti della Speciale, Toby è esploso da metà in poi. Niente da fare per nessuno. È la terza vittoria, la seconda consecutiva. Forte il ragazzone!
Alle spalle dell’Australiano ecco la prima mossa di Mathias Walkner, che non si era ancora fatto sentire dall’inizio del Rally, non aveva dato alcun segnale di reale presenza, defilato ad osservare quello che accadeva in testa alla corsa, ma a debita distanza. E terzo, finalmente, ecco Pauliño Gonçalves, a più di un minuto. Il comando del Rally è ancora nelle sue mani, ma ormai il portoghese è stretto nella morsa del ritorno delle KTM, guidato da Price, Walkner, Svitko e Quintanilla. Avrà bisogno dell’aiuto di Joan Barreda, che cambierà radicalmente ruolo e potrà a questo punto offrire al compagno di Squadra un supporto tattico determinante. Ormai sono tutti lì, alle costole di Gonçalves, Price per primo a trenta secondi appena. Contando che le Yamaha si stanno svegliando, così le Sherco di Pedrero e Duclos, e che Botturi stringe i denti con un polso gonfio come il suo casco, la corsa si anima. Era ora. E ci sarà da vederne delle belle, sicuro. Pensare che Gonçalves si arrenda o che solo si intimorisca è utopia, il piccolo coriaceo campione portoghese farà adesso la sua corsa da irriducibile mini-obelix. Certo, a vedere i colossi che lo minacciano…
Uyuni, dicono i Patronelli, “boss” storici della gara dei quad da quando la Dakar è passata in Argentina, è un filtro. Un punto della corsa, cioè, destinato a mietere delle vittime, anche importanti. Non si riferiscono a Barreda in particolare, ma non ci vuole molto a confermare la tesi. Dopo il GP del Salar, infatti, sono fuori Ruben Faria, Ivan Jakes, il nostro Alessandro Barbero che segue Federico Ghitti fermo per un problema elettrico il giorno precedente, e poi Ignacio Casale, il vincitore dei quad due anni fa, e Rafal Sonik, detentore della Dakar, e Mohamed Abu Issa, outsider pericoloso, e per poco non è toccato a Camelia Liparoti, a lungo ferma, ma poi ripartita.
Cambio di ruoli, la gara delle auto è diventata quasi noiosa. Non succede nulla che non ci si aspetti, ormai. Lo schema dell’evoluzione del Rally Avventura automobilistico sembra ormai stampato nel manuale della Dakar 2016. Beh, non è vero, stiamo facendo un po’ gli splendidi. La realtà è che le Peugeot dominano, stravincono con arrogante, in senso sportivo, candore. In realtà, come molti, in effetti lo speravamo anche noi. Per prima cosa per l’enorme simpatia che proviamo per il suo Direttore, Bruno Famin. Il ritorno di Peugeot è stato strombazzato come quello di un Titano pronto a schiacciare il pianeta e i suoi abitanti. Invece, immediatamente “umanizzato” dal vocione standard della Dakar, anche il Progetto 2008 DKR ha avuto il suo brutto momento iniziale, e ha dovuto allinearsi alla tradizione. Ecco, questo è il contesto ideale per una persona come Famin, lontano anni luce da ogni tipo di protagonismo, grande lavoratore e freddo tecnico di grande genio. La “sua” Macchina è tutta nuova, l’abbiamo già detto, è nuova la Squadra perché metterci dentro uno come Sébastien Loeb non è un’aggiunta ma una rivoluzione, ed è nuovo lo “stile” che il Team Peugeot Total ha riversato sulla Dakar di questi giorni. Nuovo è anche lo “stile” di dominio del dominio, “agghiacciante”!
Di stampo antico, invece, mi pare la direzione che ha preso oggi la corsa. La tappa è stata stupenda. Una lunghissima volata attorno al Salar. Le 2008 DKR che lo scorso anno facevano fatica a “galleggiare” e accusavano un certo ritardo di reattività del motore, adesso sono dei missili, imprendibili. Ci si aspettava ormai una lotta a coltello, e c’è stata. Evidentemente Bruno Famin ha dato questo via libera ai suoi “ragazzi”, almeno una volta godetevela, e altrettanto evidentemente il Tecnico e Manager si fida ciecamente della sua Macchina. Poteva succedere, per la verità, quasi tutto. Poteva rivincere Loeb, che era partito a fuoco ma poi si è fermato per una bucatura e un impiccio con il comando del gas che rimaneva bloccato (no, non dal suo piede), e poteva vincere Carlos Sainz che ci tiene come un bambino disperato ad aggiudicarsi una speciale con la Macchina che ha “suggerito” lui, ma poi anche Sainz ha dovuto “levare” un filo nel finale. E poteva vincere Stephane Peterhansel, insieme a Jean-Paul Cottret. Ed è quello che è successo. Ecco perché si parlava di “direzione” presa dal Rally.
Quando “Peter” va in testa, vuol dire che il Mezzo che ha a disposizione può vincere, e quando questo accade la Corsa va in configurazione “Monsieur Dakar e diventa difficilissima per tutti (gli altri). Credo che stia succedendo proprio questo. Adesso che la macchina va bene, ed è “passed” anche per quanto riguarda l’affidabilità, Peterhansel va in modalità “imprendibile”. Forse, credete a noi, è proprio così. Questa è, secondo me, il più forte suggerimento della sesta tappa, Uyuni-Uyuni o del Salar.
Poco conta che Loeb sia ancora lì e che, questo è chiaro, possa fare vedere i sorci verdi a tutti. Poco vale il quarto posto di Al Attiyah, non per i sedici minuti di ritardo quanto perché il Principe del Qatar adesso non ha più l’arma dell’attacco a sua disposizione e deve aspettare, osservare, approfittare per sovvertire una situazione che è diventata difficile da ribaltare.
La cosa bellissima è che queste tre Peugeot sono adesso raggruppate in testa alla corsa, cinque minuti tra la prima e l’ultima (qualla di Despres la lasciamo da parte, per un momento), e che Al Attiyah, Hirvonen e De Viliers sono obbligati, adesso, a inventarsi qualcosa per rispettare le clausole dei rispettivi contratti.
Scusate, questa Dakar sta diventando sempre più eccitante. Mi faccio un pisolino qui, sulla crosta del Salar di Uyuni.
Un grazie speciale a José del Hostal Oro Blanco