Dakar 2015. “Monster” Joan Roma!

Dakar 2015. “Monster” Joan Roma!
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Primo spagnolo a vincere in moto, primo catalano a trionfare in auto. Il pilota ufficiale X-Raid Monster Energy, insieme al navigatore Michel Perin, è l’uomo da battere anche nell’edizione 2015 della Dakar | <i>P. Batini</i>
25 settembre 2014

Il Monster Energy X-raid Team è il Campione in carica della Dakar, e dunque il “defender” della prossima Dakar Argentina-Bolivia-Cile in partenza da Buenos Aires il prossimo gennaio.

La Squadra Mini All4 Racing presenterà la sua formazione ufficiale per la Dakar il prossimo mese di novembre, ma una cosa è certa: con la fuoriuscita di Stephane Peterhansel il “capitano” del Team tedesco è Joan “Nani” Roma, il vincitore dell’ultima edizione, immancabilmente con Michel Perin al suo fianco. Abbiamo incontrato i Campioni nella sede del reparto corse di X-raid a Trebur, Germania, durante l’ultima fase di preparazione della nuova Macchina che affronterà, tra pochi giorni, il NPO OiLibya Rally del Marocco.

Vincitore della Dakar 2004 in Moto, primo spagnolo della Storia, e vincitore della Dakar 2014 in Auto, primo Spagnolo della Storia. Due esperienze distanti dieci anni e, naturalmente, molto diverse
«Sì, sono esperienze molto diverse. Entrambe molto dure. Quando sono arrivato con la Moto ero probabilmente già il più veloce di tutti, ma dovevo capire ancora molte cose, compreso com’era il Rally-Raid. Io non credo né alla fortuna né alla sfortuna, ma sicuramente la Dakar del 2000 la dovevo vincere. Avevo fatto tutto per vincerla, quattro speciali, una gara perfetta, ma quell’anno la KTM non andava bene. Tutti abbiamo avuto dei problemi, Arcarons, Sala, Meoni, Kinigadner, tutti. Mi sono trovato da solo, davanti, e a due giorni dall’arrivo mi sono dovuto fermare anch’io. Vuol dire che, per me, la Dakar nella quale ho meritato di più, e che pochi ricordano, è l’edizione del 2000. Poi sono entrato in un periodo di inerzia, ho cambiato da KTM a BMW, poi di nuovo indietro con KTM, due anni con poche gare e con l’ansia di vincere, che non è buono. Alla fine, nel 2004, una bellissima gara, dura, intensa, con avversari vicinissimi, ma fantastica, con un Team bellissimo. Una storia bellissima culminata con la vittoria».

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La Mini All4 Racing di Joan "Nani" Roma alle prese con le difficoltà della Dakar

 

Subito dopo hai cambiato e sei passato alle Auto. Dicevi che la moto è pericolosa
«Sì, ma la mia vera storia è che avrei sempre voluto, fin da piccolo, correre in auto. Da quando avevo 11 anni andavo nei campi attorno a casa mia a fare il matto, con vecchie macchine, con  il trattore. Se sono approdato alle moto, in verità, è perché non avevo i soldi per comprarmi una macchina, e neanche una moto. Allora ho iniziato con l’Enduro, e la prima moto l’ho avuta a 18 anni. Ho iniziato tardi, a 19 anni il Campionato spagnolo di Enduro, a 22 sono diventato Campione Europeo under 23. E, subito dopo, la Dakar. La mia è stata una storia velocissima. La moto mi ha dato tantissimo, ma la mia grande passione è sempre stata la macchina. Quando ho vinto la Dakar in moto, la prima cosa che ho pensato è che avevo la possibilità di passare alle auto. Era il momento magico, unico, in cui avrei potuto accedere a quel mondo con una buona macchina e un buon team, grazie al fatto che avevo un grande sponsor, e Repsol mi ha aiutato. Una decisione fulminea, di cui sono contentissimo».

Però ci sono voluti dieci anni per vincere, a dimostrazione che nulla arriva per caso e subito
«Bisogna sempre imparare. E ho cercato di farlo. Certi giornalisti mi dicono che sono fortunato, che ho avuto tutto. Io dico che mi sono impegnato molto, e che tutto quello che ho adesso è come se fosse un di più. Perché mai avevo pensato di diventare un professionista in moto, poi in auto. Mai avrei pensato di fare una Dakar, e la prossima sarà le ventesima, mai pensato che l’avrei vinta, e l’ho vinta in moto e in auto. Tutto quello che ho avuto, in un certo senso, è un bonus della mia vita. Ma, sicuro, dieci anni. C’è una spiegazione più o meno ragionevole. Prima di tutto devi imparare, e costa tanto perché la Dakar è una gara particolare e veramente veloce, piena di gente molto esperta, e devi cambiare il tuo “chip”. Poi, quando già avevo una bella esperienza, ho avuto l’incidente fatale a Henry Magne, che mi ha segnato molto. Per fortuna ero con un Team e con gente, come Dominique Seirieys, che mi ha catapultato di nuovo in macchina, ma avevo fatto un passo indietro. Di nuovo in progressione, fino al 2009, quando la Mitsubishi ha deciso di chiudere con l’attività ufficiale. Un piccolo calvario, qualche gara sbagliata, cambi di vetture, ricominciare. Alla fine sono dieci anni, ma li spendi tutti in fretta, avanti e indietro, una faccenda sempre molto delicata».

Bisogna sempre imparare. E ho cercato di farlo. Certi giornalisti mi dicono che sono fortunato, che ho avuto tutto. Io dico che mi sono impegnato molto, e che tutto quello che ho adesso è come se fosse un di più


E adesso, se vogliamo, una terza fase. Hai vinto in macchina, sei in un certo senso appagato, e improvvisamente diventi il responsabile rappresentativo, emblematico, dell’impegno di X-raid
«Sì, è vero, ma in questo caso ho il vantaggio di aver vissuto un’esperienza analoga con altri Team ufficiali, con KTM, con il Team KTM Repsol e con BMW. Certamente, ora con le auto, è un’esperienza nuova, ma la considero un aspetto normale del mio lavoro, che non mi farà partire ogni mattina con l’ansia della responsabilità di un ruolo. No, come sempre la mia attenzione, e la mia motivazione, sarà concentrata sul fatto di dare il massimo e di fare il meglio. È la vita del professionista. Vincere e perdere fa parte delle regole dello sport. Il fatto che Peterhansel sia partito non cambia molto. Anche questo è già successo. Non si può dire che ho perso un riferimento, perché il mio principale riferimento è nella sensibilità che ho acquisito facendo sempre moltissimi chilometri per conoscere e sviluppare il mezzo da corsa. Anche quando ho iniziato con le auto. Ero sempre lì, tutto il tempo, a guardare, ascoltare, sempre con la tuta e il casco, pronto. E alla fine mi dicevano, “vieni, sali in macchina”, e io guidavo, più che potevo, senza sosta. Vuol dire che non è, ancora, fortuna, sono ore e ore, giorni, mesi di lavoro, sempre pronto a fare un test, della macchina, delle sospensioni, dei pneumatici. Tutto per acquisire il massimo dell’esperienza possibile e per cercare di capire un dettaglio in più. Alla fine quello che arriva non è più il frutto di una casualità, ma dell’impegno».

E della passione…
«Certamente, assolutamente sì. Io vivo per questo, mi piace enormemente ogni aspetto della mia vita da pilota, ne sono “matto”, come lo è il mio navigatore, Michel Perin. Alla fine di tutto c’è sempre la passione. La fortuna è che c’è un “matto” che ci paga per fare questo».

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Roma vede la Dakar 2015 come conservativa. Appuntamento a gennaio per vedere se avrà ragione

 

Come vedi la Dakar di quest’anno?
«A livello di gara la vedo un po’ tradizionale. Ma dobbiamo vedere che differenza farà la Bolivia e la Tappa Marathon, che disputiamo anche noi con le macchine dopo tanto tempo. Vuol dire arrivare in Bolivia con la macchina in ordine, con le gomme a posto, perfetta perché non avremo assistenza a Uyuni e dovremo tornare indietro in Cile. Il resto è un po’ “tipico” della Dakar sudamericana, che conosciamo abbastanza. Per noi è una gara che dobbiamo sfruttare al meglio, e penso di essere in una buona condizione. Sono tranquillo per il lavoro fatto, tranquillo perché adesso “so” come si vince una Dakar anche in Auto, tranquillo perché sento che “si può fare di nuovo”. Tranquillo soprattutto perché l’anno scorso abbiamo vinto con la… tranquillità. Ogni giorno con calma e attenzione».

Nel 2004 hai detto “adesso so come si fa a vincere”. Quest’anno hai imparato come si vince in auto. C’è differenza tra i due tipi di consapevolezza?
«Sì, è diverso. In macchina condividi il lavoro e ogni parte dell’impegno con un’altra persona, in moto sei da solo. I due mondi, auto e moto, sono diversi, diversi tutti, anche i giornalisti, per esempio veramente accaniti con noi gli ultimi giorni della Dakar scorsa. Difficile più fuori, talvolta, che dentro la macchina. La vittoria in macchina è stata davvero dura, per fortuna che eravamo molto in pace e tranquilli, e che tutto è andato come avevamo pianificato, sin dalle primissime tappe. Una prima settimana spettacolare, attentissimi, senza mai commettere errori, concentrati sulle difficoltà che ci aspettavamo, proprio quelle che ci attendevamo, e stando attenti a vincere ma anche pronti ad arrivare dietro per essere avvantaggiati il giorno successivo. Michel ha fatto un lavoro incredibile, ricordate la quinta tappa, un capolavoro che dobbiamo a lui, forse una delle sensazioni più belle della mia storia con la Dakar. C’è stata la polemica sugli ordini di scuderia, ma quando la ricordo mi rendo conto che chi ha avuto da ridire, alimentando una facile tensione mediatica, non ha capito nulla della Dakar».

Che pensi dal “cambio” di Stephane Peterhansel?
«Penso che sia un fatto molto positivo per tutti noi. L’arrivo, o meglio il ritorno, di una Marca importante nella storia della Dakar come Peugeot, è un fatto enormemente positivo. Per tutti. Organizzatori, team, piloti, per la corsa stessa. Con Stephane ho avuto sempre una buona relazione. È una persona cui piacciono le stesse cose che piacciono a me, dal 2005 abbiamo condiviso le stesse esperienze. Non è stato “giusto” quello che gli ho sentito dire durante la fine della Dakar, ma ho sempre pensato che in quel caso abbia giocato la carta della pressione psicologica, sostenuto facilmente dalla stampa francese. Gliel’ho detto, chiaramente, lui è un vincitore, uno che gli fa schifo arrivare secondo e quando si mette il casco non pensa che a quello. Logico che abbia cercato tutti i mezzi per destabilizzarmi, in fondo fa parte anche questo del gioco. Ma è un capitolo chiuso».

La vittoria in macchina è stata davvero dura, per fortuna che eravamo molto in pace e tranquilli, e che tutto è andato come avevamo pianificato, sin dalle primissime tappe


Ci sono persone che hanno avuto un’influenza fondamentale nella tua carriera?
«Sicuro, una di queste è Jordi, il mio manager ma soprattutto un amico da sempre. Ho iniziato con Kinigadner, ma averlo conosciuto quella sì è stata una grande fortuna. È una persona che ci ha aiutato moltissimo e che si è fatto carico di enormi responsabilità. Ogni volta che si è presentata una situazione difficile o impegnativa, Jordi è partito per la guerra per noi. Guarda indietro. Vincere una Dakar in Spagna era considerata una cosa impossibile. Abbiamo fatto un Team con Repsol e KTM, e lui ha fatto tutto questo per vincere con noi, impegnando risorse incredibili, e abbiamo vinto. Poi è stata la volta dell’avventura con le auto, e via con la stessa intensità, Mitsubishi, la “Ferrari” dei Rally-Raid, il seguito con le altre Marche. Tutto questo l’ha inventato Jordi, e lui ha sempre creduto in una possibilità vincente. Per me è stata ed è una persona fondamentale».

Come lavora uno spagnolo in Germania?
«Bene, benissimo. E talvolta è una “fortuna” non capire la lingua. Quando c’è qualcosa che non ti torna basta dire: “non ho capito!”. No, scherzo. Si lavora bene. È gente impegnata, con idee chiare e che lavora molto seriamente. Più che un Team tedesco, per la verità, è una squadra cosmopolita. Ci lavorano tedeschi, ma anche spagnoli, inglesi, francesi, polacchi. Un Team cosmopolita con il quale si lavora sempre molto bene».

Pensi mai di smettere?
«No, per la verità ancora non ci penso. È vero, questo mondo è pieno di cose da fare, se ti piacciono, ma mi piace ancora moltissimo quello che faccio. E poi, se guardo ai miei avversari, vedo che hanno tutti qualche anno più di me, talvolta parecchi. Peterhensel, Sainz, De Villiers. Sono ancora un bambino e ho ancora tanti anni davanti a me. Se un giorno sarà il caso di fermarmi lo vedrò, ma adesso non è un aspetto importante della mia vita. In fondo, nella mia vita non ho mai pensato a quello che avrei fatto nel domani. Nella vita ti capita di vedere tante disgrazie vicino a te, è meglio pensare sempre al presente e cercare di goderselo. Il futuro entra in ballo quando pensi alla famiglia, e io ho la fortuna di poterci pensare senza affanni. Il problema è quando non hai un lavoro e non sai cosa portare a casa da mangiare. Una volta un simpatico giornalista francese mi ha chiesto se sento la pressione della gara. Gli ho detto: “Tu sai cos’è la pressione?” “La pressione è avere tre figli, una moglie, non avere un lavoro e non riuscire ad arrivare alla fine del mese!” “No, non la sento la pressione della gara».

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