Dakar 2015. Ma che fine hanno fatto i bivacchi?

Dakar 2015. Ma che fine hanno fatto i bivacchi?
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Il Bivacco è il centro, la città della Dakar. Ora assomiglia di più a un campo di prigionia | <i>P. Batini, Copiapò</i>
8 gennaio 2015

Copiapò - Al terzo bivacco della Dakar 2015 ne siamo sicuri. Il bivacco non è più il luogo accogliente che riuniva i partecipanti in una occasione rara. Il Sudamerica ha cambiato la Dakar, i francesi hanno cambiato i bivacchi.
La nota è stridente, la scusa la solita: la sicurezza. Al bivacco accede soltanto chi acquista il diritto di partecipare alla vita della Dakar. Nessuna deroga. Prendiamo ad esempio il campo di lavoro di Villa Carlos Paz, il primo bivacco della Dakar di quest’anno.

Bivacchi bellissimi. Ma senza passione

Di primo acchito mi ha ricordato il paddock del Mondiale di Enduro a Lovere. In entrambi i casi il sito è straordinario, il lungo lago di un’affascinante mèta turistica, “precettato” per l’occasione. Dal punto di vista scenografico la soluzione è magnifica. Spazi verdi, infrastrutture, aria di vacanza. Da quello dell’accessibilità, invece, le differenze sono abissali. Il paddock dell’Enduro è pensato, oltre che per l’attività inerente alla competizione, per dare modo al pubblico degli appassionati di “entrare” nel vivo della manifestazione, di parteciparvi direttamente.

 

Per questo il traffico della competizione viene incanalato e vengono creati, transennando o semplicemente delimitando con la “fettuccia”, i corridoi dove gli spettatori possono circolare, in sicurezza, seguire le fasi “statiche” della competizione, ed entrare in contatto diretto con i protagonisti. La “guardie” servono per far rispettare i confini, e per sorvegliare, naturalmente, che il paddock non sia teatro di iniziative fuorilegge. Per questo il paddock è spesso circondato da una recinzione, ma le porte sono aperte.

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I controlli di sicurezza per entrare al bivacco sono sevirissimi. Può entrare solamente chi è strettamente autorizzato

Bivacco: non può entrare nessuno. E' per la sicurezza...

Anche il bivacco della Dakar è recintato ma, a parte la sicurezza, nessuno che non sia concorrente o assistente, o per diversi motivi accreditato, vi può accedere. Non sono ammesse deroghe. Per accedere all’area del bivacco, chi vi entra viene sottoposto alla verifica elettronica del pass o del braccialetto, anch’esso evoluto in senso di “sicurezza”,  e lo stesso vale per l’eventuale mezzo dell’accreditato, che reca sul parabrezza la matrice elettronica che viene letta ad ogni ingresso. Nell’enduro i sorveglianti hanno il compito di vegliare sulla sicurezza e sull’ordine all’interno, come le “guardie” di quartiere. Alla Dakar le guardie sono “gorilla”, buttafuori, e occupano le posizioni strategiche di ingresso e uscita, all’unico ingresso del “campo”, all’uscita e ad ogni ingresso di infrastruttura, sia esso il PC Course o la sala stampa.

Il cittadino appassionato di un Paese che ha pagato perché la Dakar passasse dai suoi luoghi, non ha il diritto di entrare al paddock


Gli spettatori, gli appassionati che in Sud America arrivano a diecine, centinaia di migliaia di unità, stanno fuori. Sì, avete capito bene, stanno fuori dalla recinzione, e assistono all’attività del bivacco aggrappandosi alla rete e sbirciando tra le maglie. All’epoca della Dakar africana, quando i bivacchi venivano spesso allestiti all’interno di aree aeroportuali, anche militari, la scusa della sicurezza “reggeva”, ma sul lungo lago di Villa Carlos Paz la motivazione mi pare non solo debole, ma addirittura offensiva.

 

La Dakar va in Sud America e guadagna dai governi dei Paesi che l’accoglie, i quali sostengono di investire per l’immagine del paese, per l’economia dei siti e per il bene del popolo. Il paradosso inaccettabile sta nel fatto che il cittadino appassionato di un Paese che ha pagato perché la dakar passasse dai suoi luoghi, non ha il diritto di entrare al paddock per andare a farsi fare un autografo dal proprio idolo.

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