Per inviarci segnalazioni, foto e video puoi contattarci su info@moto.it
7- Arequipa-Puno-La Paz, 11 Gennaio.
Rieccoci. Dove eravamo rimasti? Ah, sì, “Conoscete Mr. Franco… “
Sì, ma non tutti conoscono la sua formidabile task force peruviana. Mr. Franco è arrivato in Perù a metà degli anni ‘80, con un obiettivo marginale che, all’improvviso e per cause imperscrutabili, è diventato primordiale: realizzare una parte del suo essere in quel Paese, organizzarvi un evento per le Motociclette che fosse pretesto di avventura, di esplorazione e conoscenza. L’identikit di un Rally. Più precisamente, del Leggendario Incas Rally. Dal 1986 al 1990, più l’appendice dell’edizione straordinaria del 1996. Mr. Franco aveva deciso di visitare il Perù dopo aver visto una foto su una quarta di copertina. Fissava il contesto di un’ascensione al Machu Picchu. Sapete come monta la mayonnaise, all’improvviso è un’altra cosa. Sarebbe stato bello andarci con la Moto. Un amico, Danilo Arizzi, disse che si poteva fare, alt, che era arrivato il momento di far spazio in un container che partiva per Lima stipato di macchinari tessili. Arrivati a Lima c’era solo l’idea di un’avventura di Viaggio. Organizzare il Rally fu la piega che prese la storia… strada facendo. Per strada Mr. Franco conobbe Kike, diciottenne intraprendente e innamorato del proprio Paese, che lanciò l’idea dell’evento sportivo.
Mr. Franco è arrivato in Perù a metà degli anni ‘80, con un obiettivo marginale che, all’improvviso e per cause imperscrutabili, è diventato primordiale
Tutto accadde a cena. Un’esplosione. Mr. Franco andò in catalessi creativa e tornò tra i commensali solo quando lo schema del Rally fu più chiaro e gli elementi in bozza del progetto, luoghi e nomi, rotte, tracciati e mappe, tabelle di marcia e programmi, avevano riempito tutti i tovaglioli e le tovaglie di carta, il menù e anche gli scontrini. In un attimo l’Incas era diventato un progetto, ma ancora senza fondamenta, senza alcun pilastro logistico, culturale, di “impatto” sociale. Si partiva da zero, condizione perfettamente congeniale all’estro e alla passione dell’Inventore, su un foglio bianco. In una sorta di divisione dei compiti, il “Comandante” nominò Kike suo Aiutante di Campo, e alla direzione della logistica fu chiamato Roger Valencia, amico e coetaneo di Kike. Mr. Franco stava perdendo la testa per quel Paese, Kike e Roger erano già allora incurabili. Kike sarebbe diventato un’autorità tra le guide della Valle Sacra e Roger, figlio di Cuzco, è oggi Ministro del Commercio Estero e Turismo del Perù. A guidare la nascita e la crescita di quel Rally diventato leggendario, e vinto per la prima volta da Andrea Balestrieri, non furono gli uomini, pur inclini a realizzare qualcosa di eccezionale, ma lo spirito di un Paese incredibile, il Perù.
Che c’entra l’Incas Rally con la Dakar? Forse niente, un caso, ma forse non ci sarebbe stata alcuna Dakar in Perù se non fosse arrivato prima l’Incas di Acerbis. Una cosa è certa: quando i signori francesi di ASO sono andati a spiegare al Governo del Paese di che si trattava, i peruviani avevano già imparato l’italiano. Il Rally in Perù era già esistito, e per tanti motivi esisteva ancora, intatto nonostante i trenta anni passati in un soffio di leggenda.
Conoscete Mr. Franco. Si imbatte in una persona e nasce una relazione. Di solito un’amicizia, poi viene il resto, ruoli, compiti, lavoro. Il Rally prendeva forma e Mr. Franco si circondava di amici. A distanza di decenni, dal momento in cui siamo sbarcati in Perù per il nostro Viaggio, gli amici hanno cominciato a tornare, a ispirare il nostro soggiorno in funzione dell’antica amicizia. Tanti amici, storie di amicizia e del Incas Rally, incredibili, calibrate su una sintonia speciale, incancellabile e potente.
A distanza di decenni, dal momento in cui siamo sbarcati in Perù per il nostro Viaggio, gli amici hanno cominciato a tornare, a ispirare il nostro soggiorno in funzione dell’antica amicizia
Dieci minuti dopo essere sbarcato a Callao, Mr. Franco arrivava con un altro volo, un ragazzone mi intercetta fuori dall’aeroporto. “Sono Kike, l’amico di “Franquito”. Solo che non è il Kike che mi aspetto. Vent’anni, meno dei trenta passati, qualcosa non torna. Ma sì, torna, si tratta di Kike Junior, il figlio di Enrique Polack, detto “Kike”, braccio destro di Mr. Franco nelle operazioni peruviane dell’Incas Rally. Per tutta la durata del nostro viaggio in Perù abbiamo avuto al nostro fianco il supporto dei Kike, padre e figlio, e dell’intera “Armada” peruviana del Comandante.
Ora andiamo, rotta a Puno, Lago Titicaca.
Da Arequipa per andare a La Paz, destinazione finale della giornata del Viaggio e della Dakar non c’è scelta: si devono finalmente affrontare le Ande. È una fortuna. La tappa è interessante, e diventa avvincente quando decidiamo, per le verità lo avevamo già fatto da tempo, di allungare verso il Titicaca, fermarci a Puno e andare a visitare le Isole degli Uros. Una viaggetto che di solito prende almeno tre giorni, e che noi abbiamo pensato bene di comprimere in una sola giornata. Partiamo prestissimo, molto prima dell’alba, lasciando una breve visita alla Città Bianca alle nostre spalle. Arequipa è grande, bella, il centro storico elegante, animato e piacevole. Sto covando una mezza influenza ma ce ne andiamo a spasso tra la gente, ancora un’affascinante Plaza de Armas. Dagli altoparlanti la musica forte e gracchiante di un cartone animato. Ho le allucinazioni? Sono i camion della spazzatura che richiamano i cittadini, giusto un attimo prima di passare porta a porta. A cena conosciamo una famiglia di Salta e ci diamo appuntamento lì, mi infilo in farmacia, propoli e miele e in camera, a lavorare.
Arequipa è grande, bella, il centro storico elegante, animato e piacevole. Sto covando una mezza influenza ma ce ne andiamo a spasso tra la gente
Non ho ancora finito che Mr. Franco bussa alla porta: “Buongiorno. Venti minuti alla partenza!” È il suo stile, che trovo fenomenale. Non mette fretta ma crea la perfetta progressione del mettersi in movimento. È ancora notte fonda e siano in strada verso Yura, neanche un’ora dopo già a oltre 4.000 metri sul livello del mare. Il paesaggio è maestosamente desolato, solo Alpaca, Lama, Vicuna e rapaci che volteggiano sotto le nubi, forse il Guanaco, ma non sono sicuro. Fa freddo e l’altitudine, il “Sorochi” cala addosso come un pesante mantello di spossatezza. Più avanti, sull’immenso altipiano, incrociamo la carovana della Dakar in trasferimento. C’è sempre qualcuno, su questo pianeta come su quello della Dakar, che viaggia con i tuoi tempi e le tue rotte. È singolare, quasi ogni giorni incontriamo Benjamin Melot, l’ex meccanico di Cyril Despres che è finalmente riuscito a correre la sua Dakar. Un caffè al posto di passaggio, poi via, Crucero Alto, Lagunillas, ed ecco Juliaca. Lo scenario diventa meno spoglio, isolato, e la strada si raddrizza distendendosi verso il Titicaca e Puno. Il tempo è buono… a volte. In genere pioggia e sole si alternano metodicamente.
Puno, città del folclore e di frontiera, anche se il confine in questione è quello tra la Montagna e il Lago. Siamo entrati nella vastissima e complessa regione degli Aymara, sopra i limiti territoriali di Perù, Bolivia, Cile e delle rispettive, specifiche culture. Andiamo incontro a un fenomeno etnico strano e senza dubbio particolare: gli Uros. Appuntamento “biologico”, è ora di colazione, con Roger Valencia sulle rive del Titicaca. È l’hotel Libertador sulla Isla Estoves. Roger, a nostra insaputa, ha già organizzato tutto: andiamo alle Isole galleggianti degli Uros. Ci manda da soli, ci incontreremo di nuovo al nostro ritorno, al rito di passaggio che Puno ha riservato e organizzato per la Dakar. Saliamo sul battello. Il momento è in qualche modo solenne. Galleggiamo sul Lago navigabile più alto della Terra. Facciamo rotta verso la storia di un popolo che in qualche modo, in qualche modo anch’esso strano, è arrivata fino a noi, fino ai giorni nostri.
andiamo alle Isole galleggianti degli Uros. Ci manda da soli, ci incontreremo di nuovo al nostro ritorno
Gli Uros parlano una lingua diversa, non Quechua, non Aymara, sono diversi, pacifici e gentili. Sono arrivati da lontano, si dice addirittura dalla Polinesia, anche se con il Viaggio del Kon Tiki si è cercato di dimostrare il contrario, e cioè he la Polinesia fosse stata abitata da popolazioni precolombiane dell’America del Sud, e si sono stabiliti sulle rive del Titicaca. Vivono di caccia e di pesca, offrono il loro contributo all’agricoltura del Lago mantenendo la propria autonomia, e quando si vedono minacciati, decidono di sottrarsi alla bellicosa pressione degli Inca andando ad abitare… il Lago. Un colpo di genio, realizzano delle isole galleggianti sulle quali costruiscono le loro abitazioni e che raggiungono con rudimentali, ma efficienti, imbarcazioni. Isole, case, barche, tutto è realizzato utilizzando la Totora, una canna lacustre che cresce in abbondanza sulle rive del Titicaca.
Il mito nato attorno all’incontro di così tante singolarità non lascia indifferenti, e la navigazione del Titicaca per incontrare la proiezione odierna della storia degli Uros è senza dubbio interessante. Bisogna solo tenere presente che il forte richiamo turistico della vicenda etnica ha spinto le cose un po’ avanti, forse troppo in là. Le imbarcazioni si sono evolute in forme complesse e “faraoniche”, il lavoro di ricambio continuo a cui devono essere sottoposte barche, isole e capanne, la Totora si decompone rapidamente a contatto con l’acqua, ha dato il benvenuto all’“ingegnerizzazione” strutturale della plastica, pannelli fotovoltaici spuntano ovunque e l’attività principale degli abitanti delle Islas Flotantes è quella di… abitarle e di rendersi disponibili alla sceneggiata dell’incontro con i turisti. Se ci si ferma qualche metro prima dell’attracco, e si riesce a tornare indietro magari soltanto di qualche diecina di anni con l’immaginazione, il colpo d’occhio è magico, sensazionale, la fotografia che si compone è di nuovo affascinante, l’esperienza indimenticabile. Rientriamo a Puno, la festa del passaggio della Dakar in compagnia di Roger, saltiamo sulla 3008 e via verso il confine con la Bolivia.
Immagini: Piero Batini – Nikon