Per inviarci segnalazioni, foto e video puoi contattarci su info@moto.it
Se “googli” “Dakar” la prima reazione del motore di ricerca è la voce che riferisce ancora alla Capitale del Senegal, ma già la seconda porta al Rally. Se cerchi tra le immagini, invece, prima di veder saltar fuori il Museo di Storia Africana i primi undici fotogrammi dell’elenco sono della Corsa. Vuol dire che il Rally è più importante di uno dei più bei Paesi del Mondo? Che amiamo quel rombo emotivo più della potente risacca sulla spiaggia atlantica? Che abbiamo dentro una spinta interstellare che non può fermarsi al limite di un recinto geografico? Ma no, niente di tutto questo. Vuol dire semplicemente che in quel nome, Dakar, partecipiamo all’invasione dell’immaginario collettivo, cambiando non di poco il suo valore, facendolo nostro come un assunto. O per lo meno, per non farla tanto lunga, che ad occuparsi con enorme successo di quel “marchio” è stato più un ufficio marketing che l’omologo del turismo di un Paese. Niente di male, soprattutto per rispetto al genio di Thierry Sabine che alla fine degli anni settanta ha inventato la Parigi-Dakar.
Non c’è da meravigliarsi se allo scandire di quelle cinque lettere la mente può andare prima alla faccia polverosa di Stephane Peterhansel che al viso non meno gentile di Youssou N'Dour, più velocemente ai deserti tagliati da scie di polvere forsennate che alle atmosfere ritmiche del Thiossane quando il Cantante-Ministro vi riporta la magia delle sue melodie.
La Dakar è un fenomeno incredibile e fantastico. Bisognerebbe, tuttavia rileggerne di tanto in tanto la storia originale, ricollegarla ai miti ancestrali e alle fantasie di avventura a cui si è ispirata per capirlo meglio, per “sopportarlo” in un Mondo che non è più quello. Per poterlo accettare anche nelle contraddizioni che ha incontrato e creato nell’urto con l’evoluzione dell’esplorazione, geografica e intima, dell’Avventura diventata avventura, e della stessa società dalla quale ha attinto la forza d’impatto del fenomeno originale. Gigantesco.
Succede questo, da quarant’anni, ormai a milioni di brave persone. O vogliamo vedere a chi non è successo? Sogni di fare la Dakar, di correre piano per concluderla (sarebbe già una vittoria), di metterla nel cuore delle tue esperienze, almeno una volta. Se riesci a partire hai già realizzato una parte importante del sogno e sei pronto per entrare… nell’incubo. Pochi ci riescono, un po’ di più oggi ma non è così evidente, finirla è una probabilità su tre, anche meno, e magari sei tra quelli… meno dotati e quindi soggetto ad una statistica di selezione ancor più brutale. Una e mai più. Come una preghiera o un patto con il diavolo. Oggi esattamente come allora, se non ci riesci torni per vendicare la sconfitta, se ce la fai… sei preso. Ti è entrata nel sangue. Tornerai. Una due, tutte le volte finché non ce la farai più, finché la tua famiglia non ti chiederà di crescere (e per un motivo inspiegabile avrai sentito e riflettuto), finché non avrai finito i soldi o avrai cose da fare o da vivere che non puoi rimandare e accantonare, finché non cadrai vittima di un altro colpo di fulmine!
È successo, succede alla stragrande maggioranza. È come smettere di fumare, anche se ci riesci, un mese, un anno, una vita, un giorno ti capita di accendere una tantum, e ricominci. La Dakar non è una ragione di vita, ma può diventarlo, può prendere una parte importante del tuo essere, esigere che tu le dedichi molto di te.
È successo anche a noi, anche a chi aveva smesso perché nauseato, perché aveva perso troppi amici, parlato troppo francese con francesi che non capiscono. Una qualsiasi scintilla, che non riuscirebbe ad accendere neanche una molecola di ossigeno e, pronti! Si riparte.
Ne avevo avuto abbastanza e avevo smesso. Un anno, due perché nel mezzo c’è stata quella annullata, e il tarlo ricomincia a scricchiolare nel cuore di legno di balsa. Sud America. Già visto. Tre deserti insieme. Già vissuti. L’altro capo del Mondo. Sempre nel cuore. E se ne facessimo una così, senza nessun motivo, una e via, di nuovo nel nostro limbo di altre cose?
Andiamo! Com’è debole la carne! Travolti dal Sud America, dai suoi Deserti, spinti fino alla fine dell’altro Mondo. E di più. Di nuovo. Vecchi Amici. Fratelli. Cadetti diventati professionisti. Debuttanti simpatici diventati Campioni. Giorni senza dormire. Notti senza dormire. Settimane senza dormire. Nutrito di emozioni. Smetto quando voglio. Controllo totale. Così credo. Non smetto.
La Dakar è bellissima. Ma non sempre è bella. A volte non la vivi come una cosa bella. A volte è proprio brutta. Stranamente, anche della più brutta e invivibile in pochi momenti sbucci le contrarietà, le disgrazie, le avversità e tutte le quisquilie che ti consumano fisicamente. Ti resta il sapore della polpa, anche un solo boccone di bellezza, e tutto è stato bello, sei pronto a far sì che lo sia ancora e te ne viene voglia. Si chiama dipendenza. Lo so. Sempre meglio di una di quelle che ti consumano cervello e portafogli fino alle ossa… come il gokart e i suoi infiniti treni di gomme, per esempio.
Gli ultimi anni mi è venuto di viverla diversamente. Ritrovata tutta, ritrovata diversa e sempre grande, ritrovata bella. Mi è piaciuto “viaggiarla” a lato delle piste, lasciarla di più al suo layout di impareggiabile agonismo per scoprire altro, generalmente sotto, sulla terra battuta dal Rally e dalla gente di quella Terra. L’esperienza che ha cambiato la Dakar, e un po’ anche la vita, è averla vissuta in compagnia, in Equipaggio. Francamente non lo credevo possibile, o molto difficile. In barca, per esempio, c’è sempre qualcuno che manderebbe volentieri ai pesci un altro, magari l’amico fraterno. Ci vuole più fortuna, ma io l’ho avuta. A parte un’esperienza da vomitare e una bella all’inizio del Sud America, le due eccezionali con Mr. Franco.
La cosa strana è che pensavo mi piacesse viaggiare da solo. Assoluta indipendenza, ritmo appropriato e, naturalmente, perfettamente calibrato sulla massima libertà di scelta e di quantità di assorbimento dell’esperienza. Roba da zitelli, penserete voi. Per paura di sbagliare ve lo lascio pensare, visto che l’ho pensato per primo. Ma non ho risposta. La verità è che con Mr. Franco il viaggio e salito su un altro livello. Perfettamente indipendenti e perfettamente… dipendenti. Una sorta di complementarietà che viene dalla disponibilità a coltivarla e ad apprezzarne i vantaggi. Mi spiego con un esempio. Non prendetelo come la prova della verità, solo come un’idea. Non è essere disposti a guidare di notte solo perché all’altro piace guidare di giorno o non ci vede con il buio. Il bello è quando nessuno dei due ha una preferenza marcata e in automatico l’Equipaggio divide i turni in modo che quello cui piace di più la notte sale al volante e l’altro se vuole dorme. Nel piacere di viaggiare di notte c’è un’enorme libertà di pensare, guidando, e di sognare, dormendo. Poi un giorno i ruoli si invertono, tutto funziona come prima, i pensieri passano da una mente all’altra, e i sogni viceversa, e la sintonia è ancora perfetta. Qualcuno chiama tutto questo adattabilità, ma la definizione non è corretta quando si presuppone che implichi una parte di sacrificio, di compromesso. Io la chiamo sintonia d’intenti, per cui tutto quello che si riferisce all’adattabilità è solo una parte secondaria del comporre l’Equipaggio perfetto.
L’altra cosa bella è che viaggiando in buona compagnia si ha sempre voglia di raccontare e di ascoltare. Immaginate, ora, quante cose si sono dette, capite, svelate, rivelate nel salotto della nostra 3008 lungo i diecimila chilometri del viaggio accanto alla Dakar, più lungo della Dakar, più bello della Dakar perché somma del Viaggio e della Dakar. Quando tutto funziona non c’è differenza tra quesito e risposta, tra problema e soluzione, il flusso di informazioni e del piacere di scambiare non ha una direzione preferenziale e non è un restrittivo senso unico alternato. È quella specie di miracolo del fiume le cui acque scorrono nei due sensi. Sapete bene che succede davvero.
Ogni giorno abbiamo visto un pezzo di Dakar, ogni giorno abbiamo viaggiato per un’infinità di chilometri guidando per ore e ore. Avevamo una serie di vantaggi, certo. Il “salotto”, la “missione” e il contesto di quella, un mondo meraviglioso davanti al parabrezza e dietro al lunotto, da scoprire e ricordare. E un sacco di cose che ci siamo detti, su cui abbiamo riflettuto, o commentato, alcune scoprendole, altre che affioravano dai ricordi, dalle rispettive esperienze che andavano automaticamente in condivisione. Ogni giorno, spesso più volte al giorno, un argomento, un’idea, la revisione di un progetto passato o l’elaborazione di uno futuro. Molti commenti sulla Dakar, naturalmente.
Per necessità di Testata non mi posso dilungare, ho già riempito una bella parte dei dischi dei nostri server, quindi raccolgo l’”insinuazione del Direttore e cerco di essere sintetico.
“… viaggiando in buona compagnia si ha sempre voglia di raccontare e di ascoltare.” Ecco una piccola antologia cronologica della “materia” trattata in tre settimane di viaggio attraverso il continente americano. Citazioni al Diario di Viaggio.
“Grande Dakar. Grande Viaggio. Grande Compagnia. Una miscela esplosiva per una performance indimenticabile!”… È quanto spiegato sopra. Ritorno sull’argomento perché riveste una grande importanza, e perché è all’origine della riuscita del Viaggio e delle considerazioni che l’hanno accompagnato. Il giorno UNO del Viaggio è quello in cui tutto diventa facile, nel quale si entra in azione e spariscono tutte le elucubrazioni della preparazione. Quelle buone e quelle nocive.
“Perché no? Tornare in Africa è una possibilità.” A Etienne Lavigne dovevano fischiare parecchio le orecchie. A parte le madonne che instancabilmente i Piloti indirizzano al Direttore di ASO, in tre settimane anche noi l’abbiamo, come si dice da noi, rifatto nuovo. Un giorno se n’è uscito con quella frase, e noi l’abbiamo commentata. Una possibilità, forse, ma non certo una cosa facile. Lo chiedono, lo dicono, non lo escludono, dall’una e dall’altra parte del bancone gli avventori al barista. Ma in ufficio è un altro film. Finché il Sud America sarà una miniera d’oro per gli Organizzatori, dall’America del Sud non ci si muove. L’operazione per spostare identità e sistema operativo da un continente all’altro è già stata complessa e per niente scontata, ripartire da capo da un’altra parte potrebbe anche essere un rischio. Nel 2008 c’era grande emozione per l’annullamento forzato dell’edizione che sarebbe dovuta partire dal Portogallo. L’onda emotiva dette forza al cambiamento tamponandone le falle, e lo spostamento di quel Marchio da un layout a un altro finì per essere tollerato, capito, accettato, riconosciuto. Sì, il sistema operativo aveva riconosciuto il nuovo drive e da allora un fiume di dollari è stato convogliato nelle casse di ASO. Ora l’”oued” è in secca, ma non spento. Ricordiamoci di un quadro fondamentale: per organizzare in Africa la Dakar, e prima ancora la Paris-Dakar dell’origine, ASO, e prima ancora TSO, dovevano affrontare delle spese. In Sud America la Società è riuscita a mettere il suo prodotto all’asta, a imporre un “canone” ai Governi anfitrioni che lo volevano “a tutti i costi”. Non c’è niente di male, se richiesta e offerta giacciono su uno stesso piano consensuale, ma non ci facciamo troppi romanzi attorno.
“La Dakar 2018 torna in Perù”… è stato l’hilight dell’edizione 2018. Dopo un lungo braccio di ferro con Argentina, Cile e Bolivia, anche la Dakar del 2019 tornerà in Perù, solo in Perù. Brutto, perché sarà la prima volta che il Rally non attraverserà neanche un confine, bellissimo perché il Perù è ancor di più che… bellissimo! Io ci sono stato una volta soltanto, è vero, l’ho girato in lungo e in largo con Mr. Franco come guida. Non vedo l’ora di tornarci! Lima, la costa del Pacifico, Pisco, Nasca, San Juan de Marcona, Arequipa poi a Est verso le Ande, una valle dopo l’altra, paradiso dopo paradiso. Onde di morfologia e di sensazioni.
Alla Dakar, lo insegnava Thierry Sabine sin dall’alba dell’Avventura, devi avere sempre lo stomaco e il serbatoio pieni. Nell’ordine. A pancia piena risolvi un problema di carburante, a digiuno perdi la lucidità e non ti viene nemmeno voglia di andare avanti. E noi, uguale. Serbatoi sempre, possibilmente, pieni. La Bolivia ci resta impressa per la Quinoa Real che si coltiva a Nord del Salar di Uyuni. Argentina, Brasile, Paraguai, Cile, il primato per la carne migliore è guerra sudamericana, le porte del paradiso si chiamano “churrasco” e “parrilla”. In Perù tutto quello che si coltiva è sublime, ma la divinità a tavola è… il pollo, allevato a granturco. Non potete sapere!
Tornando alle cose “serie”, la Dakar 2019 starà tutta in Perù. Se non succede qualcosa che parrebbe pur sempre clamoroso, dieci giorni e tanto deserto di Ica, dune e sabbia, da strappare gli occhi, abbacinati da orizzonti indefinibili e miraggi di cielo e oceano. Tutto in due settimane, tutto quello che per anni, a più riprese per un motivo o per un altro, è mancato alla Dakar sudamericana. Non rimpiangeremo l’Atacama, Copiapò, il Cile. Non per quindici giorni. Poi ci mancherà di nuovo. Perù e Cile sono due dei Paesi più belli del Mondo, impossibili da vivere completamente. Troppe meraviglie, viaggi tosti. Foreste vere e montagne vere in Perù, il Cile che comincia da un Tropico e finisce quasi al Polo, da zero a cinquemila in 200 chilometri dal Pacifico alle Ande. Insieme a Mr. Franco conveniamo che se sarà solo Perù non ci dispiacerà. Due settimane di full Dakar e full Perù non saranno nello spirito originale della traversata delle origini, ma offrono l’opportunità di vivere più serenamente il privilegio di un Paese esagerato. Parliamo per i Piloti e per noi. Probabilmente gli Organizzatori, dovendo… organizzarsi diversamente per il futuro della Dakar, saranno più “tirati”.
“Pisco, limone, zucchero…” Non solo argomenti “pesanti”, cosmici o religiosi. Sulla Peugeot talk show c’è spazio anche per i temi più leggeri della vita, purché di spessore culturale. Il Pisco Sour, per esempio. Pisco, limone, zucchero, ghiaccio, due gocce di Amargo Chuncho Bitter e chiara d’uovo per la montatina nel frullatore. È il drink internazionale che evoca i tramonti oceanici del Sud America, il piacere del palato che affratella peruviani e boliviani, cileni e argentini. Per i peccati di gola, il Pisco Sour è l’assoluzione.
Quel giorno la Dakar è entrata nel vivo, sapevamo che l’avrebbe vinta una 3008 DKR Maxi. Sapevamo anche che quella sarebbe stata l’ultima partecipazione ufficiale di Peugeot. Tre Vittorie consecutive, la leggenda, poi il ritiro, imbattuta. Come la leggenda delle 205 e 405 Grand Raid. Commentavamo che Mini e Toyota avrebbero fatto quello che potevano, ma che dovevano ancora scontare il “peccato originale”. Avevano sottovalutato, snobbato il potenziale delle Peugeot l’anno che arrivarono, con il Dream Team e con una 2008 ancora acerba. “Toy” e Mini avevano belle Macchine, belle organizzazioni e fior di Piloti, ma poche speranze. Certamente, commentavamo, dopo il ritiro di Peugeot sarà guerra per l’eredità. Ancora oggi ci telefoniamo al riguardo, Mr. Franco e io, ci teniamo aggiornati, sbalorditi se è vero che né Toyota né Mini vogliono dare una Macchina a Peterhansel perché vuole correre con sua Moglie, Andrea Mayer. A parte Loeb tutti gli altri del Dream Team Peugeot, Sainz, “Peter” e Despres, correrebbero volentieri con Mini. A patto che si tratti della due ruote motrici sviluppata da Hirvonen, assegnata in un primo momento a Luc Alphand e ora contesa dagli ex Peugeot. Concordiamo anche sul fatto che in questa polarizzazione di scelte ci deve essere lo zampino di Nasser Al Attiyah, Principe del Qatar ma anche tiranno di Toyota. Mentalmente salutiamo Bruno Famin, l’ingegnere che ha guidato la missione Peugeot Dakar e che ora si occupa delle Peugeot del Mondiale di Rallycross e, ancora, di Loeb.
“Lo Shuttle 3008… “ Abbiamo usato la Peugeot 3008 per la “campagna” Dakar 2017. Quando si è trattato di organizzare la “spedizione” 2018 abbiamo voluto la stessa Macchina. Siamo grati a Peugeot. Primo: per aver fatto della 3008 una vettura magnifica da usare. Secondo: perché con poche accortezze è la Macchina ideale… da vivere. La storia l’abbiamo già raccontata in lungo e in largo. 25.000 chilometri in due edizioni, quattro Paesi e un Oceano attraversati, 150 cavalli e 400 Nm in due litri di cilindrata, pochi litri di diesel e non una goccia d’olio, comfort esagerato. Come avrebbe detto un giorno Bruno Famin, “la 3008 è la macchina vincente, su strada e fuori strada!”
Il nostro assetto particolare, 5 cerchi in acciaio, gomme rinforzate, due ruote di scorta e un piccolo imbuto artigianale, calibrato per adattare le pompe sudamericane ai bocchettoni dei serbatoi europei. Stop. Un solo problema, spirituale: viaggiare a 80 KM/H in Bolivia. Limite assurdo, ogni giorno Mr. Franco e io ripetevamo la sceneggiata dell’esorcismo facendo finta di scendere dalla Macchina “in corsa”.
Penserete che stiamo facendo della pubblicità. Pensate giusto, e pensate sbagliato. Riflettete. Quando si è dotati allo stato dell’arte, è inevitabile che se ne parli. È parte del piacere e della serenità. Uno dei problemi di una “missione” come la Dakar è la paranoia che ti pianti in asso l’attrezzatura. Ha del ridicolo, ma finisce che hai due reflex Nikon, più due Coolpix, più una Action. Finisce che hai sfinito Intermatica per avere una stazione grande Explorer, una piccola iSatHub e un portatile Iridium. Finisce che hai un telefono Xiaomi, top ma pur sempre delicato per il tipo di uso, e un Hardmadillos indistruttibile che è come la pillola di valeriana quando il sonno è minacciato dai pensieri. Finisce che hai due computer uguali, due orologi, due altimetri, due… scatole. Siccome sei partito al top e sei stato attento, non si rompe niente, non hai perso e non ti hanno rubato nulla. Il bagaglio della tranquillità.
In ogni angolo del Perù, a sera arriva il Ceviche, bocconcini di Cernia, Corvina, Pejerrey, Lenguado “cotti” in una salsa di limone, o lime, cipolla, sale, peperoncino e coriandolo. Un’ora e mezza in frigo. Dicevamo delle cose importanti della vita…
Da capo, la Dakar per un piccolo giorno a lato della vita. Le Isole Ballestas, Arca di Noè di roccia che spunta dalle acque del Pacifico. Da Paracas, in barca, oltre il Candelabro, misterioso disegno sulla parete di arenaria oltre capo Gral, Pellicani, Cormorani, Sule “Pata Azul”, “Roja”, il Zarcillo, misterioso gabbiano, Condor e Avvoltoi dalla Testa Rossa, Otarie e Leoni Marini, Pinguini di Humboldt, foche, delfini, tartarughe marine. Tutto questo può succedere nel giro di un paio d’ore.
“Il Leggendario Incas Rally. Dal 1986 al 1990…” Soprattutto Perù. Il Paese mi resta nel cuore. Mr. Franco ce l’ha da quando vi è sbarcato per la prima volta per organizzarvi il suo Incas Rally. Cinque edizioni memorabili, più una straordinaria nel 1996. Leggendaria, da pelle d’oca la Lima-Rio, dal Pacifico all’Atlantico vinta da Fabrizio Meoni. Per la prima volta l’Incas, il Rally di Mr. Franco, aveva attraversato un confine. Nella mente dell’”Inventore” c’era, tuttavia, una profonda convinzione: un Rally può vivere, deve vivere in un solo Paese. E venne il Nevada Rally, e come in Perù si realizzò il miracolo dell’integrazione emotiva del Pilota con la Terra e con la sua Gente, e l’esperienza della passione divenne una tappa di crescita dell’anima. Proprio quello che, invece, è il timore di Lavigne e di ASO. Stia tranquillo il signor Etienne. La Dakar solo e tutta in Perù, la Dakar “piccola”, potrà essere solo un’esperienza gigantesca. Parola di Mr. Franco. In Perù c’è la seconda famiglia di Mr. Franco. Gli amici di una vita. Una rete di sicurezza in tutto il Sud America.
Rotta a Puno, Lago Titicaca, le Isole degli Uros arrivati da lontano, si dice dalla Polinesia per vivere la loro singolare avventura su isole e barche di paglia, di Totora, sul Lago navigabile più alto della Terra. Grazie Dakar, grazie Perù. Hey, voi che vi lamentate che il Rally tornerà e resterà solo in quel Paese, andateci un po’ prima o restateci un poco dopo, o tutte e due le soluzioni, e guardatevi attorno più che potete!
Leggi tutto (parte1) | Leggi tutto (parte2)
“Nel “catino” di Nuestra Señora de La Paz, confidenzialmente La Paz.”… In Bolivia cambia tutto. In Bolivia Evo Morales è padre e padrone, in Bolivia piove e anche d’estate fa freddo. In Bolivia tutto costa fatica e solitudine, anche un piatto di minestra. La Dakar si ferma a La Paz per la giornata di riposo. Si fa per dire. Noi, in pieno “Effetto Wende”, Yannick e Kenny, ripartiamo subito per non perderci il meglio di quello straordinario “imbuto” delle Ande. Torniamo religiosamente a pregare alle canne d’organo naturali di Las Animas, saliamo il Huayna Potosì. L’altitudine ci consuma a vista d’occhio, la felicità ci nutre. La miniera di Milluni, il suo piccolo cimitero dei minatori di una storia di guerra civile, il murales di Miguel Alandia Pantoja pittore e rivoluzionario, nascosto da un doppio muro del cinema della Miniera. La Metropoli sul tetto del Mondo è laggiù, in basso. Torniamo sul Sendero del Aguila, la passeggiata dell’ultimo Ernesto Che Guevara, i giorni della sua ultima operazione, in Bolivia, con Tamara Bunke Bider, detta Tania la Guerrillera.
Leggi tutto (parte1) | Leggi tutto (parte 2)
“La ferrovia collegava Uyuni ad Antofagasta”... Il Cile e la Bolivia. Tempi di pace sotterrati da sbagli e presunzioni, ruggine per fortuna rimasta solo nei convogli ferroviari abbandonati nel cimitero dei treni di Uyuni. Mr. Franco e io siamo innamorati del Salar di Uyuni. Per me sembrava dovesse rimanere un tabù. Per due volte il maltempo ci aveva respinto quella volta in viaggio con Edi Orioli durante un indimenticabile Desert Challenge. Quell’anno avevamo perso una parte della sfida. Ne avremmo vinte molte altre. Il Salar è un’icona della Bolivia, un viaggio a sé. L’abbiamo “conquistato” da Nord, da Sud, da Est. Mr. Franco anche da Ovest, dal Cile. Un anno è una lastra crepata di sale, un altro è un lago, un altro ancora invisibile e introvabile nella nebbia. Un anno la volata eccellente della Dakar, un altro il suo inferno della disperazione. Vi si entra facilmente da Colchani, venti chilometri a Nord di Uyuni. Bisogna stare attenti perché quando è “bagnato” il Salar può essere una trappola per la migliore delle jeep. Noi, forti dell’invulnerabilità della 3008, “sfidiamo” il Salar allagato. Ci va bene, abbiamo osato comunque il minimo per il battesimo nelle acque salate di una delle più maestose meraviglie della Terra.
“La tavolozza del Pittore”. Scendere da Tupiza, Bolivia, a Salta, Argentina. Come passare in rassegna metà dei colori della natura. Dopo i colori del mare e del cielo, Perù, Bolivia, è la volta dei colori della terra e del cielo, Argentina. Scendere dai tremila e tornare a un livello più respirabile dilata la mente. Si ricomincia ad apprezzare le sfumature più dolci del paesaggio che cambia ogni pochi chilometri. Abra Pampa, Tres Cruces, Humahuaca, la magica, caleidoscopica Purmamarca nella Quebrada, e viene di nuovo voglia di raccontare, di tornare indietro.
Chi è il più grande della Dakar? Mr. Franco dice Fabrizio Meoni, io dico Edi Orioli, tutti e due diciamo Stephane Peterhansel. Non c’è scandalo, non la mortificazione di una classifica. In due abbiamo fatto tre nomi, e tutti e tre ci appartengono e appartengono alla passione, alla storia della Dakar. Meoni è stato l’anima e il sangue indimenticabili di un modo straordinario di essere Uomo e Pilota. Orioli l’intelligenza e il rigore dell’onestà in grado di ridicolizzare con la fantasia la forza, l’astuzia e la malizia degli Avversari, della Corsa stessa. Peterhansel è il Marziano sceso sulla terra per illuminare, sdrammatizzare, “normalizzare” l’Avventura. Per esaltarla e traghettarla attraverso epoche e condizioni totalmente diverse. Probabilmente senza “Peter” la Dakar non sarebbe arrivata ai giorni nostri. Tre nomi, un argomento fondamentale della Storia della Dakar che meditiamo da tempo di sviluppare.
A Salta l’ex fazenda di Robert Duval, i Fenestraz, El Colibri, House Of Jasmins, le loro accoglienti Estancia de Charme…
“Il Sirah di Don Diego!... Poche ore di sonno. Sempre troppo poche, senza sogni. A volte ci pare di sognare da svegli. Sicuramente non è solo e sempre un’impressione. Una di queste volte è Fiambalá, l“ovale” naturale, cento chilometri per cinquanta tra due pareti di roccia e sabbia. È uno scenario stratosferico che ricorda il gigantismo del Salar, la discrezione della Valle della Luna e… il Circo Massimo. Nella cruda realtà dell’estate è… un forno. L’arrivo di tappa è in mezzo al “circo” naturale. Il vento non è forte, ma caldo, e ti fa capire bene … che aria può tirare da queste parti. La scena è sublime e inquietante. Emozione della Natura. Salutiamo Barreda che se ne va, Walkner e le Peugeot che vinceranno. Ormai è fatta. È come se la Dakar, intesa come Rally, fosse finita. Potenza della magia di Fiambalà? Perche no!
Riprendiamo la strada, questa volta con la sensazione impagabile e certa che possiamo rallentare, far scendere il cuore di un’ottava e liberare dalla mente qualche giga di RAM. La più bella Dakar del Sud America va verso il suo epilogo felice. E noi dietro, stesso risultato. Si parla, si parla, una tacca più indietro di schienale della 3008 e relax, sembriamo Sonny e Rico sul lungomare di Miami.
Tre chilometri più a Sud Mr. Franco si ferma accanto a una magnifica casa di adobe, scopre che è una cantina, la esplora e mi offre un bicchiere del Sirah della fattoria Don Diego. Una benedizione che scioglie l’anima. Si parla, si parla. A proposito, ma questa Dakar di oggi com’è davvero?
La risposta che Mr. Franco e io ci diamo è sostanzialmente una: una cosa d’altri tempi che resiste ai giorni nostri. Per farlo deve cambiare, ma se cambia troppo non è più la stessa. Per mantenere lo spessore dell’Avventura deve adattarsi a contesti geografici, tecnici, emozionali, sociali troppo diversi e scendere verso qualche compromesso. La morale è che la Dakar mantiene elevatissimo il livello, continua a cercare e a offrire un quoziente di agonismo, avventura, sfida e esperienza imbattibili, ma tutto questo al prezzo, salato, di aver perso una parte della sua anima. Della sua anima originale, per lo meno. Per questo il mito si adatta benissimo ai nuovi sognatori, alla “Gioventù dell’Avventura”, molto meno agli “anziani dell’Avventura” che hanno visto o vissuto la Dakar delle origini o dei periodi d’oro. Ancora una volta: non c’è niente di male, niente di perverso. Solo una constatazione.
“Maradona o Marc Coma?”… Tinogasta, San Juan, El Zonda, Cordoba, La Cumbre, Rosario… l’Atlantico. La Dakar e il nostro Viaggio finiscono a Buenos Aires, accompagnati in un gran finale da Juan José “Gato” Barbery, ex Pilota, “Dakariano”, giornalista, amico. Gato ci guida nella Buenos Aires più “classica” ma riesce a farcela conoscere in un mood meno scontato, più autentico, appassionato. Seduti al tavolino di uno dei locali del colorato Caminito, piccola riunione di amici che comprende anche Fernando-Il-Meccanico. Si parla di Dakar per l’ennesima volta. Una Dakar nella media necessita di qualche mese per sedimentare le impurità. Una bella come questa ci mette il tempo dell’aperitivo. Di chi è il merito della riuscita di questa edizione? Nessun dubbio, se c’è un nome da fare è quello di Marc Coma, leggenda vivente con cinque vittorie all’attivo che, improvvisamente, qualcosa come tre anni fa, decise di appendere il casco al chiodo e di passare dall’altra parte della barricata diventando il direttore sportivo del Rally. Sbalorditivo. Dalla Moto all’elicottero in mezza stagione. Non era mai successo. Coma ha vinto l’ultima volta nel 2015, poi ha iniziato a ricostruire la “sua” Dakar. Dura, difficile, imparzialmente infernale. In una parola, bellissima. Autentica. La più impegnativa dell’era sudamericana. Per questo è anche stata criticata, e forse anche per questo il catalano autentico ha deciso che non poteva più vivere a Parigi e, altrettanto all’improvviso e clamorosamente, così come è arrivato questa volta è sparito dalla Dakar per tornare nella sua fattoria di Avià.
Senza alcun dubbio Marc è stato un grande. Quanto grande? Per taluni il più grande di tutti. Chiediamo a Gato. Il più Grande di tutti è stato Maradona…” e ci porta a visitare la Bombonera.
“Machu Pichu…! Non vi racconto di nuovo. Se avete piacere rileggete le emozioni del nostro viaggio oltre la Dakar a Machu Picchu.
Arrivederci.