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J 50 è stata presentata ormai da qualche mese e sono passati la festa ed il clamore mediatico sorti a buon diritto attorno a questo bel modello. Nonostante ciò, per i suoi 70 anni, vogliamo festeggiare Ferrari raccontando da vicino le forme e lo stile di questo recente capolavoro per onorare il duplice traguardo temporale del Cavallino.
Per capire bene un disegno è bene inquadrare che categoria di Ferrari andiamo a vedere: un'auto di serie, una one-off, un'auto costruita per la pista, una concept o una serie limitata.
J50 è costruita in soli dieci esemplari, è un progetto celebrativo dei cinquant'anni della presenza del Cavallino in Giappone e pertanto è nata come istant-classic da collezione, di grande valore e ricercatezza.
Ferrari, icona del bello, è presente in Giappone da 50 anni e i giapponesi sono tra i più attenti e competenti collezionisti di Ferrari al mondo. I nipponici, come preannunciato negli anni '60, sono divenuti produttori di auto dall'affidabilità e qualità costruttiva spesso irraggiungibile.
Sono profondamente preparati in materia e, per uscire dal loro isolamento, scelsero con strategia di dialogare costantemente proprio con i carrozzieri italiani . Dal grande Alfredo Michelotti alla Pininfarina, si aprì uno stretto legame di stima e collaborazione continuo tra i due paesi. Pressoché tutti i grandi del design italiano hanno oggi un rapporto costante con il Giappone e ,“per ricambiare”, questo ha dato Ken Okuyama a Pininfarina, il tempo di lavorare ad esempio alla Ferrari Enzo.
Proporre una Ferrari celebrativa in Giappone è dunque un compito culturalmente molto elevato, in cui si deve dare il massimo per un cliente esigente. Il ruolo di Ferrari è unico nel mondo dell'auto e se la sua immagine è sempre fresca e dinamica, le sue riflessioni segrete e le sue strategie sono gravi e ponderate. Ad esempio in Giappone nessuno alzerà mai la voce ma, se si sbaglia, con discrezione si chiudono inesorabilmente tante porte per sempre, per chiunque.
La risposta di Ferrari a questo ingaggio è stata quella di realizzare un auto la cui qualità saliente è quella di essere inattesa. Un'ottima strategia che ha saputo regalare oltre alla nota qualità Ferrari, una grande e piacevole sensazione di sorpresa al Giappone.
La bellezza di quest'auto è visibilmente dovuta al saper proporre la contemporaneità e l'innovazione in modo netto, riuscendo con maestria ad evocare - proprio per il suo compito celebrativo - anche la lezione del passato, del cui filo rosso J50 è salda detentrice. Non vi è alcuna malinconica forzatura di temi noti in chiave moderna e J50 racconta invece con entusiasmo un compendio di saperi Ferrari espressi con grande spontaneità e consapevolezza.
La cosa che più distingue J50 è l'avere una linea della carrozzeria che “gira” tutto intorno. Le auto hanno spesso un'immagine bidimensionale per ciascun lato. Fumia aveva teorizzato il concetto di “quadrifrontale”, riproponendo il medesimo stilema di riconoscimento per ciascun lato dell'auto, evidentissimo in F90.
Manzoni qui evolve la visione prospettica dell'auto che non trova più sufficienti le viste laterali ma fascia sempre in modo tridimensionale la carrozzeria. L'effetto è dato dallo schema di J50: è evidente che l'auto possa essere riassunta ad una F1 ricoperta da parafanghi, a cui si è aggiunto un secondo posto nell'abitacolo.
Così facendo i parafanghi, sia anteriori che posteriori, dalla linea di fiancata mutano piega con decisione andando oltre alla nervatura centrale e giungono a plasmarsi sulle ruote fasciandole, proseguendo verso il centro dell'auto.
Vi sono diversi motivi che definiscono J50 una sorpresa inattesa: vi è ad esempio una fanaleria anteriore inedita, mai vista sulle ultime Rosse, che da' all'auto un espressione “viva” e di genuina concretezza di contenuti. Sorpresa anche per la fascia nera a mezza carrozzeria che avanza a cuneo verso il frontale, ma che gira e scompare nella presa d'aria dietro alla portiera senza proseguire verso la coda: questo segno rende compatto il muso dell'auto, trovando qui il maggior risalto della fascia, che da sempre enfatizza invece la fiancata laterale delle Ferrari. La maniglia di apertura dello sportello è inglobata sul suo angolo posteriore in alto, a confine della presa di raffreddamento del motore. La coda è pulitissima, iconica, ma nulla di stilizzato, anch'essa molto viva. Gli indicatori di direzione anteriori sono “scomparsi” negli angoli della fascia nera perimetrale, cancellando per sempre il problemino estetico di quelle freccette, che stranamente e simpaticamente non sempre trovano semplicità grafica ovvia da realizzare in una Ferrari. Per questi motivi principalmente riteniamo J50 molto riuscita e degna del valore collezionistico che certamente otterrà.
Descrivere una Ferrari per iscritto comunque non dà tutto questo gusto ovviamente, anzi ci fa sentire dei gregari di periferia. Abbiamo mille modi offerti dalla tecnologia contemporanea per godersi empaticamente J50 attraverso foto e video.
Per questo abbiamo deciso di focalizzare l'attenzione anche sul significato celebrativo espresso dalla linea di J50, in quanto raramente un modello del Cavallino ha avuto la qualità così evidente, come J50, di saper raccontare la storia del design Ferrari attraverso le sue forme assolutamente fresche e contemporanee.
Tom Tjaarda ci aveva corretti con il suo raffinato stile sul fatto che in nessun modo un automobile possa e debba esser considerata un'opera d'arte. La tentazione forte di dirlo viene a tutti e lo si legge sempre più spesso. Noi non lo diremo invece mai più. “L'auto è un prodotto industriale, che deve funzionare sempre, essere sicuro e ben proporzionato”, quasi vitruviano, ci disse quella volta.
Se manca questa premessa si paragona il lavoro dei designer a quello di un pittore o uno scultore. Mai. Un designer, specialmente in Ferrari, è il coordinatore di un'infinità di regole ingegneristiche, di lessico e di strategia aziendale. Non opera per l'arte ma per la tecnica, ha i piedi radicati al terreno e coordina lavori di uomini e di macchinari, rispettando infiniti canoni normativi. Il complimento più bello dunque che si possa fare ad un auto (ovviamente bella) paradossalmente è quello di non considerarla un'opera d'arte, perché questa spesso non ha un senso così concreto. Il car-design è molto più vicino all'Architettura, anch'esso semmai una teknè, sintesi di arte e tecnica. Per coincidenza Tjaarda e Manzoni sono entrambi architetti.
Per un designer è compito ambito, paragonabile all'ambizione di un pilota a stare dietro al suo volante in F1. Stessa preparazione psico-fisica, stessa gloria in caso di successo.
Perché? Per l'anima ed il carattere che Enzo Ferrari ha saputo infondere alla sua scuderia e che ancora si può nettamente percepire Se non sappiamo vedere il fantasma di Enzo vicino ad una Ferrari o siamo superficiali noi o siamo di fronte ad un raro modello anomalo. Nel nostro caso è molto presente.
J50 racconta 5 decadi di Ferrari senza lasciare adito ad alcuna malinconia e usa il passato per avvalorare i suoi canoni di innovazione con una padronanza che ci affascina.
Il titolo di Wenders e degli U2 rieccheggia a confrontare J50 con alcuni modelli con cui è interessante fare un paragone, dato il carattere appunto celebrativo di quest'auto.
Anche qui una premessa: citare il passato non significherà mai in queste righe alludere a imitazioni, rivisitazioni o scimmiottamenti. Abbiamo a che fare con un designer vero che si chiama Flavio Manzoni, una mano che se richiama solo quanto ha studiato, sa confrontarsi con esso e se lo usa è per empatia culturale e lessico, non certo come emulo. Un esempio? Le frecce di J50 sono la migliore evoluzione contemporanea di quelle della 275 P2 progettate dal bravissimo Michelotti nel '68.
In Ferrari la Dino Berlinetta Speciale di Brovarone inaugura l'epoca delle berlinette a motore posteriore, dal baricentro bassissimo, Paolo Martin apre ad un era moderna e futuristica con la sua Modulo celeste divisa da una fascia perimetrale rossa e nell'era Fioravanti il canone si fissa stabilmente sulla berlinetta maneggevole bassa e compatta, a motore posteriore-centrale.
bassissima a motore posteriore-centrale, carrozzeria bipartita dallo “scuretto”fino ai tre quarti ed ha una compattezza che la rende estremamente performante. J50 non appartiene a nessuna delle 3 ere perché la sua architettura di F1 “calandrata” è inedita ma:
Il parafango anteriore ha una curvatura del profilo che ricorda la 288 Gto, muovendosi verso il montante del parabrezza dove esattamente c'è l'adesivo del Cavallino. Ne rievoca l'emozione, senza assomigliarle in nulla. Si contestualizza inoltre aprendo un gran dibattito con le altre Ferrari celebrative F40 ed F50.
Della bellezza di F40 non parleremo qui, essendo già stata consegnata alla storia con tutti i suoi meritati onori: fu un'auto da gara e poco ha in comune con J50, se non la bellezza, comunque diversa. Se non vi è dialogo dunque tra queste due auto, è interessante osservare che differenza epocale scelte così diverse rappresentino. Si crea allora comunque un dialogo di confronto consistente, da cui si desume che proporre oggi per il cinquantesimo in Giappone un'auto da gara come F40 sarebbe stato insensato e riduttivo nel dimostrare le qualità costruttive “di serie” di Ferrari.
Teoricamente molto vicina nel ruolo “d'oro” di J50 come auto celebrativa, qui si vedono cambi di strategia diversi da quelli tipologici che dividono F40 e J50. Vi è una maturazione notevole di intenti e di immagine da trasmettere: F50 perde il ruolo di corsaiola pura di F40, ripercorrendone però alcuni echi che rendono F50 “fine a se stessa”, né da gara, né da diporto. J50 è una supercar usabile e concreta, una prova d'artista dedicata ai suoi clienti giapponesi. E la prova non sta in un prodotto effimero, ma anzi tagliente, usabile ogni giorno e pronto a confrontarsi col resto del mondo. F e J arrivano ad affrontare temi simili, entrambe sono contraddistinte da grandi movimenti della linea del cofano per assecondare le leggi dell'aerodinamica e sebbene su J50 siano più estreme, su F50 le prese risultano forse troppo vistose. Vistoso in J50 è un termine tassativamente e quasi moralmente bandito. Se la F40 e la J50 sono pezzi rari iper-performanti, la prima cerca di stupirci a tutti i costi la seconda di affascinarci. Differenza per nulla sottile che ci indica a distanza di anni quanto Ferrari abbia voluto fuggire il terribile concetto del “Ferrarino”, che imperò quasi dispregiativo e senza diritto negli anni ottanta e primi '90, per recuperare nettamente il dialogo con ben altri contenuti e con i grandi momenti del suo passato, sorpassandoli per innovazione.
La F50 di Camardella - comunque venerata - cerca il filone di F40 con un alettone posteriore enorme. L'auto è veloce quanto vistosa e i fari di posizione sdoppiati dai fanali anteriori creano una ridondanza nel frontale tale da sporcarlo un po', facendolo sembrare un facelift di un teorico modello precedente. Il profilo laterale di F50 poi rischia di risultare troppo allungato per la cabina che sembra un po' infossarsi nel centro dell'auto.
J50 ha invece un mantra di pulizia formale evidente e, nonostante vi sia grande movimento di linee e notevole gioco di aerodinamica, stilisticamente tutto questo è reso con un “ardire equilibrato”.
J50 si stacca dunque dalle altre “celebrative”, facendo sì che ciascuna sia sempre elemento di rottura con le altre, dunque elemento unico e da collezione. Bello!
Grande dialogo qui molto sostanziale intercorre invece con la “Sergio” di Pininfarina, nata sotto la guida di Fabio Filippini. L'auto ha delle caratteristiche che rendono sensato un paragone con J50: frontale rialzato, sciancrature di fiancata e cofano posteriore nero. Con sofferenza scriviamo che questo legame forte ci fa riflettere ora che la Pininfarina ha subito quello che ha subito. “Sergio” e “J” raccontano con la loro amicizia il più bel sodalizio della storia del car-design, la storia mitologica e irripetibile del costruttore modenese ed il carrozziere di Torino. Fermiamo le nostalgie e non chiediamoci quale sarà il futuro dello storico sodalizio e torniamo alle auto: indubbio che siano vicinissime in diversi contenuti e senza dubbio il miglior collezionista del mondo sarà quello che potrà tenerle insieme in garage. Ma il layout delle due auto è diversissimo: “Sergio” è un'auto elegantissima e la sua fiancata bipartita è riassumibile ad un massiccio volume-propulsore posteriore unito ad un corpo a freccia che si stacca dal primo, scagliato in avanti dalla possente cavalleria. J50 ha volume unico e compatto dove posteriore ed avantreno trovano un dialogo unitario dando grande risalto alle ruote, quasi concettualmente staccate dal corpo vettura.
Il roll-bar di “Sergio” avanza controvento e rievoca le concept di Pininfarina di fine anni '60, primi '70. Da qui altra grande differenza: “ Sergio” è raffinatissima e ricercata ma la sua aura è molto dei tempi che furono anche a causa della fanaleria anteriore, troppo simile con quella fascia che la unisce, allo spoiler nero che applicarono - con suo cruccio - al frontale della Dino Speciale di Martin. Con questa fanaleria “anni '60” “Sergio” non riesce ad essere contemporanea, in controsenso alla moderna dualità della sua linea come detto, alla riuscita forma della coda ed al gioco della fascia grigia dei parafanghi posteriori che viene triangolata attraverso lo spoiler controvento verso il cofano anteriore nero, con grande stile. Curiosamente anche il cofano posteriore nero a fori tondi omaggia Martin, rievocando i medesimi stilemi della Modulo.
J50 chiude poi un cerchio con il disegno del bridge posteriore: la coda esce da qualsiasi tecnicismo per diventare avvolgente, unitaria e iconica. Altra importante citazione: la 250 Le Mans. I cofani posteriori di questi due cavallini, diversissimi, parlano la stessa lingua, e noi la riconosciamo subito.
J50 è dunque una bella matassa del filo rosso di decenni di storia del cavallino. Quando uscì la 456 gli intenditori non gradirono per nulla la scelta di citare il passato per mera imitazione della Daytona, anziché per filologia e coscienza di brand. Tra l'altro -curioso - Daytona nacque senza disegni per mano del battilastra Giancarlo Guerra che la fece “ a filo”per Scaglietti.
Poi Fioravanti cercò di modificarne di corsa l'insipido frontale per ben tre volte, fino a cedere e appiccicarci quello della Dino Parigi di Martin, dato che il salone del '68 era alle porte. Si imitò dunque con 456 la Ferrari meno disegnata di sempre!
J50 è l'opposto, piena di dna dei suoi avi ma figlia del giorno d'oggi, con anche un pensiero sul domani. Le uniche linee che imita pedissequamente sono quelle dell'aria, attraverso uno studio aerodinamico tassativo e vincolante: per questo i parafanghi non sono corposi: si è scoperto tra la galleria e la pista che quelli “pieni”, della 250 Gto per intenderci, sono inefficaci. Una scoperta del genere rivoluziona il modo di disegnare auto e allontana il rischio di annoiarsi riproponendo le solite cose. Magnifico!
Una delle caratteristiche fondamentali dicevamo è data dalla tensione delle linee che non si interrompono mai. Se giriamo l'auto non abbiamo prospettive che al mutare dell'inclinazione ci rendono un prospetto diverso e bidimensionale. Esempio chiarificatore è offerto da ciò che avviene dietro al finestrino: la superficie vetrata è a maschera avvolgente e si svincola dal padiglione laterale del cofano posteriore con un gioco di pieni e vuoti. Il padiglione ha la sua forma triangolare, il vetro un'altra. L'auto potrebbe essere benissimo una barchetta e la linea funzionerebbe ugualmente. Una Koenigsegg, dalla cabina così ben fatta, non riuscirebbe egualmente in versione barchetta.
Il cofano posteriore di J50 sale denso come la presa d'aria motore delle monoposto di F1. Non è composto dai classici due triangoli laterali verticali che sorreggono un'ala come fosse un'assicella appoggiata. In J50 c'è un movimento fluido, che cambia di piano nell'alettone ma resta unitario.
Bugatti Veyron affronta la fine della fiancata di coda anch'esso in modo corposo, ripercorrendo il layout della Lotus Europa con il finestrino che termina netto contro il padiglione posteriore. Questo, massiccio, non si separa dal parafango originando una vista laterale bidimensionale. Scavalcando il padiglione verso il centro del cofano motore troviamo le due prese d'aria e poi si “cade” perpendicolarmente nel cofano piatto. In J50 il padiglione posteriore gira e rimane piatto, fuso nel bridge, mentre sono le ondulazioni del cofano motore in materiale trasparente a definire gli spazi di coda sopra il motore, certo non piatti come si faceva 30 anni fa.
Anche il muso ha grande equilibrio ed ospita una fanaleria affilata ed espressiva, quasi da oggetto animato. Ne fari a scomparsa, ne fanaleria a cascata, discreta ma già vista e molto estesa: due fessure bastano a dar carattere forte al frontale. Sembra una risposta Italiana alla voglia di semplificare tornando rotondi dei fari della “911”. Le frecce non cadono dopo i fari come in F50 ma sono incassate nella fascia che cinge i tre quarti anteriori dell'auto,invisibili quando spente.
All'interno il feeling è noto alla produzione attuale Ferrari ed è gradito non vedere un cruscotto a palpebra con cupolotto ad arco, inflazionatissimo e preistorico. Il cruscotto è futuribile ed aggressivo, con tutto a portata di mano e senza ombra di anacronismi.
Per concludere non ometteremo di certo di raccontare chi sono i protagonisti di J50. Il primo protagonista è un bel passaggio da approfondire per lo spinosissimo tema del “centri stile”: J50 è integralmente figlia del Centro Stile Ferrari ed è uno dei suoi successi più raffinati.
Fino ad oggi abbiamo scritto quanto i centri stile rappresentino contraddizioni ed insidie gravi per il car-design. La tesi è avvalorata dalla quasi totalità dei designer che hanno scritto la storia dell'auto. E noi crediamo loro perché i fatti lo confermano: vi è una mediocrità stilistica generale piuttosto allarmante.
Non possiamo citare scelte di nomi controproducenti per numerosi modelli ma ci pensa già il web, non possiamo citare più di troppo operazioni di brand altisonanti che hanno dato prodotti-imitazione da prima pagina ma senza né una seconda né una terza. Citiamo invece Giugiaro, come spesso, mente afferma chiaramente che “ il desing è anti-democratico”. O c'è un capo progetto operativo e disegnante o non si va da nessuna parte.
Ci sono comunque rari casi di centro stile che hanno prodotto capolavori: il Centro Stile Alfa Romeo è stato quello che ha segnato la storia con la Giulia dei primi anni '60, quando sorpassò e sorprese tutti gli stilisti più blasonati del tempo – che insistevano sul magnifico canone classico Alfa all'epoca - con la sua rivoluzionaria linea. Anche Nuova Giulietta del '77, capolavoro ancora non rivalutato il giusto, fu disegnata al centro stile Alfa con a capo l'architetto Ermanno Cressoni. In Alfa si respirava...Alfa (detto tutto) ed evidentemente chi le disegnava più era vicino al Portello e più era prolifico.
Qualcosa di simile sta succedendo in Ferrari ai giorni nostri.
La maggior parte dei centri stile dei marchi generalisti sono sorti in sintesi per risparmiare teoricamente tempo e soprattutto denaro a discapito della ricerca pura, tipica delle carrozzerie italiane, rivolte in larga parte a concept non integralmente volti alla produzione.
I centri stile sono “antichi” in America dove a Detroit hanno ricarrozzato lo stesso telaio con marchi fittizi, nomi diversi, creando alcuni capolavori prima, ma giungendo poi a creare auto insignificanti per poi far precipitare nel vuoto tutto il settore dagli anni '70 ad oggi: un bel guadagno dunque il “tagliare i costi”!Relativamente recenti in Europa - dove sorgono numerosi anche quelli dedicati alle auto asiatiche - spesso hanno operato nell'incapacità strutturale di poter gestire la qualità del design, colmando la carenza culturale nello sviluppo di mode basate sul gadget appariscente e sull'effetto choc: esempi tra molti ne sono la barra posteriore di plastica cromata tra i fanali, sempre inserita per recuperare linee insipide, enormi bocchette dell'aria finte anteriori ed estrattori finti e ridicoli al posteriore, indicatori di direzione progressivi, identici alle segnaletiche posticce dei cantieri e che confondono pericolosamente danneggiando l'immediatezza lessicale dei simboli di emergenza ( stop e frecce), i fanali posteriori trapezioidali pressoché clonati tra i vari modelli o le day-light, nate per risparmiare elettricità e dunque energia di giorno, che stanno accese anche di notte con gli anabbaglianti, aumentando i consumi elettrici e abbagliando chi le incontra. Che dire dei fari automatici sui soli fari anteriori che li lasciano accesi di giorno senza accendere i fari posteriori, soprattutto in caso di nebbia diurna con enorme pericolo?! Notevoli anche i SUV-coupé, ma di particolare curiosità un nuovo SUV, coupé ma quattro porte (contraddizione), praticamente sprovvisto dei finestrini alle portiere posteriori (buona claustrofobia!). Questo SUV rimpiazza nella stravaganza un caso simile dotato di fari di posizione sul cofano che riducono la visuale notturna del guidatore stesso, auto-abbagliandolo. Tutti questi esempi sono bandiera di “stranezza” stilistica al posto di professionalità, eccellenza ,regola, gusto e logica a cui eravamo abituati.
Con queste premesse non rosee ora cerchiamo di esplorare come mai Ferrari ha aperto il suo centro stile e come leggerlo. Citiamo la celebre frase del Drake “il secondo è il primo dei perdenti” per richiamare che Ferrari fondamentalmente non può sbagliare intenti né progetti per conservare la sua immagine vincente.
Ci costa moltissimo dirlo, ed è una frase epocale in negativo per la carrozzeria italiana e dunque l'Italia: Ferrari ha realizzato il suo centro stile anche perché non ha più avuto quelle risposte concrete “da fuoriclasse” che si aspettava dai carrozzieri esterni. Questa è l'amarissima verità strutturale a cui decenni di “certa politica dirigenziale” ha condotto le grandi firme e i loro accordi commerciali, a volte letali (Bertone e il caso di Alfa Gt ad esempio).
Ancora Giancarlo Guerra, il capo dei battilastra di Scaglietti, in un intervista dice con chiarezza e semplicità che le Ferrari “non bastava farle veloci, dovevano essere anche belle!”: un must dunque, ma l'ultimo carrozziere esterno che ha contribuito in modo innovativo allo stile delle grandi GT Ferrari è stato Giugiaro nel 2005, con le proporzioni della sua GG50 – altro cavallino “50” da anniversario! Ma la sua interazione con Ferrari fu piuttosto limitata, all'epoca in cui Ramaciotti diresse per l'ultimo anno lo stile Pininfarina. Non conosciamo, per onore della cronaca, se ci siano state interazioni esterne tra Ferrari e altre realtà legate allo stile.
Ferrari prosegue ad ogni gara e nuovo modello ad evolvere la sua ricerca tecnica e repentinamente giunge a nuovi capitoli: anche da questi progressi nasce con spontaneità la voglia di gestire in proprio lo stile, che viene ribattezzato design integrato.
Le forme diventano insomma un “segreto della casa”, nate da studi che qui, al posto di manager del marketing, hanno le leggi dei flussi d'aria o delle accelerazioni laterali. Per inciso, si aggiunga poi che l'artigianato ha subito una categorizzazione miope: non esistono più i lavori di una volta, non esiste più l'artigianato. Invece chi studia le tensioni delle trame del carbonio e chi lo plasma sono entrambi al pari degli artigiani di una volta, come per tutte le figure professionali che nascono attorno ai nuovi materiali di cui anche Ferrari si avvale. Ma come una volta le proprie tecniche devono essere segrete e restare in casa.
Aperto senza esitazione dunque il Centro Stile, subito Ferrari vi ha messo dentro una squadra di eccellenza, con a capo Flavio Manzoni.
Un direttore che ha “le mani sporche di inchiostro”, ha disegnato in precedenza diversi successi altrove, si è formato coi migliori e...suona Keith Jarret a memoria al pianoforte davanti a un pubblico.
J50 è ottima sintesi e parola finale sul giudizio che possiamo dare a come sta operando il design Ferrari: ottimo legame con la storia della casa, nessuna emulazione ma approfondimenti, reinterpretazioni di merito e ovviamente innovazione.
In ultima ci permettiamo di dire che se quello di Ferrari si chiama “Centro Stile”, noi non lo riteniamo del tutto un nome adatto: ci risulta a tutti gli effetti una carrozzeria, come le chiamavano una volta, solo monomandataria, attuale e in simbiosi totale con l'innovazione tecnologica di cui i diversi “artigiani-ricercatori” Ferrari hanno necessità di discutere direttamente tra loro.
È come un settore dell'officina dove invece che forgiare pistoni si studiano l'aerodinamica, i materiali, la storia e come vestire al meglio il proprio prodotto di eccellenza.
Alessandro Sammartini