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Fra appassionati è abbastanza normale commentare gli esiti delle competizioni. Chiacchierate in cui si rievocano sorpassi, ordini d’arrivo, episodi rimasti nella storia che spesso si stemperano o si infiammano andando a parlare di circuiti, commentando la personalità (o la mancanza di essa) dei tracciati più famosi del mondo, magari andando a ricordare i bei tempi andati e le piste che hanno scritto le pagine più belle o brutte degli sport motoristici.
Non capita però spesso di poterlo fare con chi per lavoro i circuiti li progetta, li analizza e li ristruttura o magari li rende più sicuri. E’ quello che è successo a noi, che grazie ad una comune amicizia abbiamo potuto passare qualche ora a parlare con Jarno Zaffelli. Titolare dello studio Dromo, Jarno è l’autore unico del nuovissimo impianto di Termas de Rio Hondo, dove si stanno per disputare MotoGP e WTCC – è di pochi giorni fa la notizia dell’annullamento della gara di Curitiba e dell’ingresso, appunto, dell’autodromo argentino. La sua attività lo ha portato a toccare in veste di consulente praticamente tutti i maggiori autodromi italiani e diversi fra quelli europei, e fra le sue collaborazioni ve ne sono diverse meno ufficiali che lo vedono impegnato praticamente a tempo pieno in tutto il mondo, al seguito dei campionati del mondo di tutti gli sport motoristici.
Come nasce un autodromo?
Non sappiamo se anche voi avreste lo stesso problema, ma se qualcuno ci dicesse dall’oggi al domani di disegnare il nostro autodromo ideale è molto probabile che ci troveremmo davanti ad un terribile caso di blocco del disegnatore. Resteremmo a guardare un foglio bianco per ore sudando freddo prima di provare a buttare giù qualche schizzo, finendo con ogni probabilità per abbandonare l’idea.Come si fa?
«In effetti non è semplice, prova ne sia il fatto che le piste davvero belle non sono certo la maggioranza. Diciamo che innanzitutto si parte valutando lo spazio a disposizione, considerando viabilità e strutture che bisognerà inserire sulla base di che tipo di attività e gare dovrà ospitare. Chiaramente se si deve pensare un circuito per un Mondiale certe considerazioni che possono sembrare secondarie diventano di primaria importanza: quanto pubblico dobbiamo attenderci? Quanti e quali mezzi dovranno entrare nel paddock? Quanta gente e quali servizi dovrà ospitare la palazzina dei box?»
«Una volta stabiliti questi vincoli si può capire dove collocarli ed iniziare a pensare la pista sulla base delle prestazioni dei mezzi che ci correranno – è evidente che se il tracciato deve ospitare la MotoGP o la Formula 1 piuttosto che il Turismo o un campionato nazionale le esigenze in termini di lunghezza dei rettilinei, ampiezza delle vie di fuga e lunghezza/larghezza della pista cambiano radicalmente. Noi siamo gli unici che hanno messo a punto sistemi di progettazione assistita al computer che ci permettono di definire già in partenza un tracciato dimensionato correttamente»
«A parte gli ausili tecnici, però, il disegno del tracciato è in gran parte una questione di sensibilità e gusto individuale. A me piace disegnare piste veloci ed impegnative, su cui penso che i piloti si divertiranno a girare, in cui vorranno tornare – in questo caso il mio lavoro è facilitato dagli strumenti di cui sopra, perché quando disegno una curva so già quanto potrà risultare ostica e che tipo e frequenza di cadute innescherà. Disponiamo di un database con svariate decine di migliaia di cadute (per le moto) ed uscite di pista (per le auto) classificate sulla base del tipo di mezzo, di tracciato e di condizione. Non vi posso chiaramente svelare i parametri che utilizziamo per la definizione di questi modelli, ma vi posso garantire che i risultati si sono dimostrati estremamente precisi, anche su autodromi già esistenti»
Termas de Rio Hondo
La domanda sorge però lubranescamente spontanea. Come è nata la vostra avventura in Argentina?
«Quasi per caso. Quando si è iniziato a parlare del Gran Premio d’Argentina ho visto la struttura e ho pensato ‘è impossibile che si venga a correre qui’, visto le caratteristiche. Il tracciato era interessante – non a caso nella sua progettazione era stato coinvolto un gentleman driver, una vera e propria celebrità locale – ma ampiamente migliorabile, e le infrastrutture erano poco più che inesistenti. Pensate che in Argentina ci sono letteralmente decine di circuiti, praticamente strisce d’asfalto nel nulla, e la realtà degli impianti più prestigiosi non è comunque al livello che ci si aspetta oggi»
«Così non ho fatto altro che propormi ai promoter, spendendo un po’ delle mie referenze, per capire se fossero interessati. Da un primo contatto è nato un viaggio in loco, ci siamo piaciuti a vicenda e mi sono messo al lavoro. Mi sono limitato alla progettazione e ad una consulenza per così dire ‘direttiva’ dei lavori, perché giustamente i promoter hanno voluto impiegare aziende e manodopera locali ovunque fosse possibile, ma credo che quando lo vedrete resterete piacevolmente stupiti»
“Qualcuno ha convinto il mondo che le piste che devono ospitare la Formula 1 e le auto in generale, per favorire i sorpassi, devono essere larghissime e composte da lunghi rettilinei raccordati da tornanti. “Così si passa in staccata”, questa è la teoria, e spesso non è vero”
Cosa avete fatto sul tracciato?
«Ho cercato di preservare la natura del tracciato. L'andamento della pista era molto semplice e originale, ma pensavo che con qualche tocco qua e là si sarebbe potuto migliorare molto. E' la prima volta in assoluto che una pista viene interamente progettata in base alla dinamica delle moto e delle auto, con un occhio veramente obiettivo sulla sicurezza intorno al tracciato. Una volta terminata l’asfaltatura hanno ospitato una gara del campionato turismo argentino, e tutti ci hanno fatto i complimenti per il lavoro svolto. Sono sicuro che vedrete gare divertenti»
Da auto, da moto o semplicemente belle?
Quindi è vero, insistiamo, che quando una pista viene fatta per le auto le moto non ci si trovano granché. E se invece capita il contrario, ovvero si porta la Formula 1 su un circuito nato per le moto?
«Non c’è nessun problema, anzi, è molto facile che la pista piaccia molto a tutti i piloti. Ma vi voglio chiedere: com’è fatto un circuito da auto? Cos’ha di diverso da uno da moto? Ve lo dico io: potenzialmente niente. La differenza, se mai, è fra piste belle e piste brutte»
«Il problema» continua Zaffelli, «è che qualcuno ha convinto il mondo che le piste che devono ospitare la Formula 1 e le auto in generale, per favorire i sorpassi, devono essere larghissime e composte da lunghi rettilinei raccordati da tornanti. “Così si passa in staccata”, questa è la teoria, e spesso non è vero. Il fatto è che disegnarli così è più semplice, si raggiungono più facilmente gli obiettivi, ma si creano piste banali, poco selettive e noiose anche per il pubblico»
Obiettivi da raggiungere? Di cosa stiamo parlando?
«Sembrerà paradossale ma quando si progetta una pista uno dei fattori più importanti è la gestione della logistica: come organizzare il paddock, perché Formula 1 e motociclismo in generale hanno esigenze diversissime tanto come spazio occupato dalle strutture quanto per la gestione degli ospiti. Chiedetevi perché la nuovissima, e costosissima, Wing di Silverstone è stata abbandonata da tutti i campionati a due ruote per tornare al vecchio paddock?»
«Bisogna anche considerare che gli sport motoristici sono sempre più televisivi. Non è per niente un caso se la durata del giro delle Formula 1 su tutti i nuovi circuiti si attesta regolarmente attorno al minuto e mezzo o poco oltre – serve per programmare al meglio lo spettacolo, equilibrare le pause televisive ma anche la durata totale delle soste ai box. E’ più facile calcolare quanto vengono esposti i cartelloni degli sponsor a seconda del tipo di curva»
«Certo, una pista come quelle nuove che siamo abituati a vedere per la Formula 1 è sicura – almeno secondo i parametri della Formula 1, che non corrispondono assolutamente a quelli impiegati per i Mondiali a due ruote – ma difficilmente piace ai piloti, che amano piste veloci e impegnative. Il fatto è che le piste per essere belle devono essere pericolose: essere tecniche, indurre all’errore e richiedere tanto tempo per essere conosciute a fondo. Poi, è evidente, si tratta di metterle in sicurezza calcolando le giuste vie di fuga, però la sicurezza non deve essere una scusa per scegliere la strada più semplice per disegnare un tracciato»
Mettere in sicurezza
Cosa intendiamo per mettere in sicurezza?
«Si potrebbe pensare, banalmente, che sia tutta questione di vie di fuga – certo, sono importantissime, ma il discorso non si esaurisce così rapidamente. Il fondo della via di fuga stessa dipende dal mezzo che andrà a correre su una determinata pista: vogliamo ghiaia fine, mai ondulata, che rallenti le moto quando scivolano (ma tendono a far ribaltare le auto a ruote scoperte, per non parlare di come planano con il fondo piatto) o magari sassolini più grossi che consentono alle auto (e anche alle moto) di non “piantarsi” e quindi ripartire?»
“Per quanto sia lunga la via di fuga, se non vogliamo posizionare gli spettatori in un'altra provincia sarà necessario ad un certo punto inserire barriere. Scegliere la protezione giusta, per dimensioni, assorbimento e profilo, è fondamentale”
«Inoltre, per quanto sia lunga la via di fuga, se non vogliamo posizionare gli spettatori in un'altra provincia sarà necessario ad un certo punto inserire barriere. Scegliere la protezione giusta, per dimensioni, assorbimento e profilo, è fondamentale. Prendete l’incidente in cui ha perso la vita Kato a Suzuka: per quanto imprevedibile nella dinamica, un’analisi successiva che è stata condotta dalle autorità giapponesi ha evidenziato come in quel punto ci fosse una protezione nata per assorbire un impatto diretto, quasi frontale. Il povero Kato è finito contro la protezione su uno dei lati; se la protezione fosse stata diversa l’impatto sarebbe stato anch'esso molto diverso, e l’energia cinetica non sarebbe stata arrestata brutalmente come è invece avvenuto»
Incidenti diversi
Abbiamo parlato di diversi parametri per il calcolo della sicurezza fra auto e moto. Entriamo nel dettaglio?
«E’ più semplice di quanto non sembri. Sulla base di statistiche sul tipo di errori, incidenti, cadute, i due campionati ragionano attribuendo all’uscita di pista cause e dinamiche diverse. Sulle auto si parte dal presupposto che la stragrande maggioranza delle uscite di pista, ovvero la situazione in cui entrano in gioco le infrastrutture di sicurezza del tracciato, avviene senza perdita di controllo. L’auto è su quattro ruote, ha direzionalità, difficilmente è danneggiata in componenti strutturali – insomma, il pilota fa un lungo. Ecco spiegata la popolarità delle vie di fuga in asfalto dei tracciati ‘da auto’, poi adottate in parte anche dalle moto per fare si che errori banali non trasformassero griglie di partenza un tempo povere in ordini d’arrivo a una sola cifra»
«Al contrario, quando si va fuori pista, in moto il pilota normalmente è in una situazione di controllo scarso o nullo. Spesso non è nemmeno in sella, perché si è già staccato dalla moto durante la caduta o scivolata, quindi non ha il minimo controllo direzionale sulla propria traiettoria; inoltre l’uscita può avvenire in diversi punti della curva, tanto in entrata quanto in uscita, sbalzato via dalla moto. E' evidente che le vie di fuga su tracciati 'da moto' devono essere dimensionate diversamente rispetto alle auto, anche se non necessariamente vanno rese più ampie»
Chiudiamo in bellezza: la tua pista preferita?
«Suzuka. Pensate che è stata disegnata nel 1962 da un olandese, John Hugenholtz (autore fra gli altri anche di Zolder, del Motodrom di Hockenheim e di Jarama, NDR) ed è ancora molto attuale, non ha una sola curva banale, sprizza personalità da ogni metro d’asfalto – che differenza da Motegi. Al secondo posto metto senza dubbio Spa: chi non vorrebbe correrci, almeno una volta nella vita? Se parlassimo di sicurezza delle vie di fuga il discorso sarebbe, ovviamente , diverso»
E in Italia?
«Anche qui non ho dubbi: Imola. Perché è una delle poche piste che non è stata disegnata a tavolino, è nata raccordando alcune strade già esistenti nel lontano 1953. Chi ci ha lavorato ha fatto un gran lavoro, ma il segreto del suo fascino sta proprio nella sua natura imperfetta, nell’essere nata da qualcosa che già c’era. Non fraintendetemi, anche fra le realizzazioni attuali ‘fatte al computer’ si trovano piste bellissime, assolutamente perfette. Ma come si suol dire? La perfezione, a lungo andare, stanca»